Atlantide, il continente perduto

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jasmine23
view post Posted on 20/7/2007, 10:34 by: jasmine23




ATLANTIDE e i miti delle Catastrofi ricorrenti
di Vito Foschi

Introduzione
Comunemente la nascita del mito di Atlantide si attribuisce a Platone, ma l’idea di una civiltà che abbia preceduto la nostra è comune a gran parte delle antiche civiltà del pianeta. Molte hanno sviluppato miti di catastrofi ricorrenti che puntualmente vengono a distruggere le costruzioni umane, costringendo l’uomo a ricominciare daccapo.

I miti di catastrofi ricorrenti
Presso i Maya si parla di quattro ere che hanno preceduto l’attuale quinta. La prima era terminò quando quattro giaguari divorarono ogni essere vivente compreso il sole e infine perirono anch'essi. Il mondo della seconda era fu distrutto da tempeste e uragani e gli uomini furono trasformati in scimmie. La terza età si annichilò nel fuoco. La quarta terminò con un gigantesco diluvio.
Anche presso i Greci, dall’altra parte del mondo, esisteva un sistema di credenze simile. Credevano che quattro specie diverse di uomini avevano preceduta l’attuale. Una caratteristica da notare è che ogni razza successiva è meno progredita della precedente. La prima fu la razza di oro, poi segue la razza d’argento, la razza di bronzo, e quella degli eroi. L’attuale è la razza di ferro. Ogni specie viene sterminata da un cataclisma, in particolare la terza, quella di bronzo, fu distrutta da un diluvio. Il mito del diluvio universale è comune a quasi tutte le civiltà del passato in qualsiasi parte del globo siano esistite.
Scritture buddiste parlano di sette Soli, tutti annichilati dal vento, dall’acqua o dal fuoco. I nostrani libri Sibillini parlano di “nove Soli che sono nove epoche”, e vaticinano ancora due epoche a venire, quelle dell’ottavo e del nono Sole. Tradizioni aborigene raccontano: “sei soli perirono…attualmente il mondo è illuminato dal settimo sole”.
I miti degli hopi, tribù indiana dell’Arizona, raccontano:
“Il primo mondo fu distrutto, per punizione per la cattiva condotta degli uomini, da un fuoco vorace che venne dall’alto e dal basso. Il secondo mondo finì quando il globo terrestre si inclinò dal proprio asse e tutto si coprì di ghiaccio. Il terzo mondo finì in un diluvio universale. Il modo attuale è il quarto. La sua sorte dipenderà dal fatto che i suoi abitanti si comporteranno o meno secondo i disegni del Creatore”.
“Nella foresta tropicale malese il popolo Chenwong crede che di quando in quando il suo mondo, che chiama Terra Sette, si capovolga, in modo che ogni cosa viene inondata e distrutta. Tuttavia, con la mediazione del Dio Creatore Tohan, la nuova superficie piatta di quella che prima era la parte inferiore di Terra Sette, viene plasmata in montagne, valli e pianure. Nuovi alberi vengono piantati e nascono nuovi esseri umani.” (1)
Come si vede con chiarezza il mito di catastrofi ricorrente è un mito planetario. Queste coincidenze non possono essere frutto del caso. L’evento tramandatoci con maggiore ricchezza di dettagli è il diluvio universale. Sicuramente la sua leggenda origina da un avvenimento reale. Potrebbe essere stata la repentina fine dell’ultima era glaciale, che ha provocato alluvioni e terremoti su tutto il globo.(2) O si può trattare di più episodi eccezionali, che hanno riguardato diverse regioni del globo in tempi diversi, che col tempo e col linguaggio del mito hanno finito per assomigliarsi.
L’accadimento di una catastrofe di proporzioni eccezionale è un dato che si può dare per scontato.

Amnesia
L’uomo ha la tendenza a dimenticare il passato, quindi la persistenza di questo mito dimostra l’eccezionalità dell’evento diluvio. Non ci interessa focalizzarci sul singolo fatto, ma sulle teorie cicliche delle catastrofi. La diffusione di tale teorie in vari popoli, potrebbe dimostrare le difficoltà che ha incontrato l’uomo nel creare una civiltà, il passaggio da uomo raccoglitore-cacciatore a uomo agricolo, stanziale, con precise conoscenze agricole, matematiche e astronomiche e sulla conservazione dei cibi e altre. Questo processo può essere avvenuto più volte, in vari parti del mondo e puntualmente una catastrofe, un'epidemia, un terremoto o altro ha distrutto sul nascere tali tentativi. L’uomo ha dovuto ricominciare daccapo, fintanto che le conoscenze acquisite si siano diffuse e il numero degli uomini aumentato, fattore da non trascurare.
Il progresso umano non è un processo lineare come molti libri di storia lasciano intendere. Alcune scoperte l’uomo le ha dovuto fare più volte. Anzi lo stesso processo scientifico si basa sulla distruzione del saper precedente. Da un articolo del Il Sole-24Ore: “Sul versante della critica interna ai processi di produzione, Lévy-Lleblond osserva per prima cosa che la scienza dimentica il proprio passato ed è costretta a riscoprirlo, sprecando tempo e sforzi. Poiché costruisce sapere sulla distruzione di quello precedente, la sua smemoratezza le è stata utile, ma ora è talmente sistematica da diventare controproduttiva. La dinamica dei fluidi, un campo già dissodato dai matematici dei primi del secolo, ha dovuto essere riconquistata con fatica; la malattia dell’olmo ha ucciso milioni di alberi negli anni ’70 ma si sapeva come curarla dal secolo scorso; perfino la scoperta che la gastrite è un malattia infettiva era già avvenuta un secolo fa.”(3)
Un altro brano tratto da un articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno: “Alcune innovazioni sono già state fatte decenni fa e alcuni insuccessi erano già prevedibili: la pericolosità e la tossicità del piombo tetraetile – l’antidetonante delle benzine ormai quasi definitivamente eliminato dalle benzine in commercio, quelle che si chiamano “con piombo” – erano ben conosciute da chi aveva scoperto la nuova sostanza negli anni venti del Novecento. Alcuni processi per diminuire l’inquinamento atmosferico erano già stati inventati nella metà dell’Ottocento e poi accantonati. Gli attuali processi di riciclo dei rottami metallici sono stati inventati un secolo e mezzo fa.”(4)
Come si evince da questi passi l’uomo ha la spiccata tendenza a dimenticare. Se questo è avvenuto nel nostro mondo industrializzato e scientifico è certo che in una civiltà primitiva è accaduto con proporzioni ancora maggiori.

Difficoltà del progresso
“Fin dall’alba della storia gli uomini hanno dovuto fare lavori terribilmente faticosi. Tutto questo ha ritardato non poco l’evoluzione umana. Quanti di quelli che dovevano lavorare come bestie nei campi sarebbero potuti diventare degli Aristotele o dei Michelangelo, degli Shakespeare o dei Beethoven? Ma non fu mai insegnato loro altro che il necessario a compiere i loro stupidi lavori. Dovettero essere mantenuti in uno stato di inferiorità per necessità economiche.” The Sendai, 1980 William Woolfolk."
Questo brano tratto da un libro di fantascienza in cui si racconta la nascita di una razza di schiavi per alleviare l’uomo dalla fatica del lavoro, mette bene in evidenza le difficoltà del progresso. Il progresso richiede risorse. L’uomo per progredire ha bisogno della spinta dell’ambiente, delle difficoltà per pensare sistemi per sottrarsene, ma ha anche bisogno di tempo e di risorse per studiare e trovare una soluzione. Questo non sempre è stato possibile. Spesso l’uomo assorbito dalle fatiche della sopravvivenza non avuto i mezzi per progredire.
Dopo l’ultima glaciazione, il miglioramento del clima ha portato delle condizioni di vita migliori per l’uomo. L’uomo è diventato stanziale e si ha avuto un incremento demografico. Piccoli villaggi di 150-200 persone di raccoglitori, pescatori o cacciatori. L’essere stanziali ha portato all’osservazione dei cicli vegetali e della scoperta di come l’acqua sia fondamentale per le piante. La prima pratica agricola sarà stata l’innaffiamento di campi selvatici. Poi ci sarà stata la scoperta dei semi e la nascita di vere e proprie pratiche agricole. E così per l’allevamento. L’essere stanziali è un prerequisito fondamentale, ma anche la numerosità. Questo spiega la crescita esponenziale delle conoscenze umane avvenuta solo negli ultimi millenni. Prima l’uomo era impossibilitato a fare certe scoperte. Inoltre c’è un problema di massa critica. La conquista delle prime conoscenze ha comportato sforzi maggiori delle scoperte avvenute dopo. E’ come una bomba atomica quando c’è l’innesco c’è una esplosione catastrofica, ma senza innesco il tutto rimane inerte. Il numero degli uomini è importante, perché una scoperta per essere tramandata con sicurezza deve essere diffusa. Immaginate un’epidemia che porti alla scomparsa del primo villaggio dove è stata scoperta l’agricoltura. Bisogna ricominciare tutto da daccapo. Ma se invece la scoperta viene diffusa al villaggio vicino e poi ad altri fino ad essere diffusa in un ampio areale la possibilità che tale conoscenza scompaia si riducono notevolmente.

Il mito dell’Età dell’Oro e i Civilizzatori
L’uomo tende a mitizzare il passato. È un atteggiamento tipicamente umano. Quante volte abbiamo sentito ai nostri nonni raccontare il passato come età migliore dell’attuale, dimenticando la fame e le privazioni provate. Supponiamo, che nella sua storia, abbia sempre proceduto per prove ed errori.
A un certo momento della storia, si è creato un embrione di civiltà, (per civiltà intendiamo una società agricola stanziale), e questa per qualsiasi motivo si è spenta, lasciando pochi individui derelitti. Questi ultimi avranno rimpianto il loro passato creando il mito dell’età dell’oro. E se questo processo si è ripetuto più volte, in diverse regioni del nostro pianeta, potrebbe spiegare il perché dell’esistenza di tale mito in tutte le civiltà passate. Un’altra ipotesi potrebbe essere che la civiltà abbia avuto un unico grembo è che le periodiche catastrofi, anche di portate minore tipo carestie dovute a siccità, abbiano costretto gruppi o singoli individui a migrare in altre terre, portando con sé conoscenze, che a agli occhi di uomini allo stato primitivo di raccoglitori, saranno sembrate magiche. Queste ipotesi potrebbero spiegare i miti simili a quello di Prometeo, di individui superiori apportatori di conoscenza e di civiltà. Immaginate lo stupore che hanno potuto provare uomini che ancora non conoscevano il fuoco, quando si sono trovati davanti un uomo che gli insegnava ad usarlo. Una scoperta eccezionale: potevano scaldarsi, cuocere il cibo, difendersi dagli animali, indurire le punte delle frecce, vedere di notte!
In tutte le parti del mondo esistono leggende su mitici civilizzatori. In Sudamerica nelle regione andina si parla di Viracocha. In Messico i Maya raccontano la leggenda di Quetzalcoatl. In Egitto,
Osiride, lasciò il regno nelle mani di Iside e insegnò agricoltura e allevamento bestiame, costruì canali, argini in giro per il mondo: Etiopia, Arabia e poi India.
L’origine di queste leggende è con molta probabilità in comune con il mito dell’età dell’oro.

Comunicazione e metodologia della trasmissione del sapere
La civiltà può aver avuto più inizi e non essere stata un processo lineare come molti vogliono farci credere. Oggi l’uomo può contare su sei miliardi di individui e su risorse che solo confrontate con quelle del secolo scorso si possono solo definire sterminate. L’uomo nei millenni passati era solo una delle tante creature che popolavano il pianeta. Il suo numero, gli storici lo hanno stimato intorno ai 10 milioni. Tale numero era suddiviso sull’intero pianeta. Quindi l’uomo viveva in comunità di piccole dimensioni. I trasporti erano difficili e quindi la comunicazione era perlomeno difficoltosa. Supponiamo che qualcuno abbia scoperto un metodo per cuocere la terracotta. Innanzitutto, per interesse professionale l’artigiano non ha interesse a divulgarlo, anzi è vero il contrario, ma se anche volesse diffondere il suo metodo, avrebbe notevoli difficoltà. Quindi una scoperta, può essere stata fatta più volte, prima di diffondersi a livello generale.
Un esempio è la scoperta dello zero fatta dagli indiani da cui, tramite gli arabi è arrivato in occidente, e dai Maya. Le due civiltà non erano in comunicazione e quindi non hanno potuto approfittare delle reciproche conoscenze, che avrebbe permesso ad una civiltà di impiegare le risorse per scoprire lo zero per altre cose, facendo crescere il livello delle conoscenze delle due società ad un livello superiore per ambedue.
Un altro fattore da non trascurare è la metodologia della trasmissione del sapere. Anche oggi in un mondo in cui l’informazione sembra a portata di mano esistono zone oscure in cui è impedito l’accesso. Basti pensare a quanta tecnologia militare è chiusa in sicuri bunker inaccessibili ai più. O un esempio, più banale, ma forse più emblematico, la formula della Coca Cola, uno dei segreti meglio custoditi del mondo. Anche in passato la trasmissione del sapere è stata soggetta a questi vincoli. E così l’artigiano trasmetteva le sue scoperte ai suoi allievi, che avrebbero fatto lo stesso, mantenendo un vincolo di segretezza. Le corporazione medievali adoperavano gli stessi vincoli, presenti anche nella leggenda massonica di Hiram. Un altro esempio è l’arte della metallurgia ammantata da oscuri simbolismi dai sacerdoti egizi per mantenere il loro segreto e il loro potere. Provate a immaginare una società in cui la scienza è patrimonio di pochi. Non dimentichiamo che il sapere è uno dei pilastri del potere. È sufficiente un disastro, anche una semplice guerra, che stermini la classe egemone per far regredire la società ad un livello di molto inferiore.
La diffusione della civiltà e l’aumento del numero degli uomini è la premessa per evitare ritorni ad uno stato primitivo. Per questo la civiltà appena nata sarà stata una pianta fragile, soggetta a frequenti ritorni al passato, fintanto non ha raggiunto un livello tale da consentire un progresso più o meno continuo. Si ricordi della parentesi altomedievale, in cui il livello della civiltà europea è regredito, e in cui la civiltà araba ha avuto il compito di preservare parte del patrimonio culturale classico. Un esempio di come un maggior numero di uomini può preservare la cultura. Una parte del mondo regrediva e un’altra progrediva, e la civiltà nel suo complesso proseguiva il suo percorso.

Conclusione
Il mito di una civiltà che ha preceduto la nostra nasce da accadimenti reali. Però resta un problema aperto. La presenza di miti simili in svariate culture in tutto il globo potrebbe far pensare ad un’origine comune dei miti e quindi all’esistenza di una civiltà planetaria che ha preceduto la nostra. Questa ipotesi si potrebbe chiamare Atlantide di Platone o Atlantide planetaria. Ma c’è un’altra ipotesi da prendere in considerazioni. La nascita e la scomparsa di più civiltà nel passato. Si potrebbe chiamare semplicemente ipotesi delle catastrofi ricorrenti o ipotesi delle Atlantidi locali. Le scomparse di queste civiltà hanno potuto far nascere miti simili o comunque che col tempo hanno assunto una forma simile. Queste civiltà potrebbero non essere state in collegamento fra loro per motivi o geografici o temporali. Temporali nel senso che potrebbero essere sorte e scomparse in periodi tali da rendere impossibile il contatto. Una civiltà può essere sorta quando l’altra era già scomparsa.
Se si trovano rovine antiche anche simili in diversi parti del mondo non è detto che appartengano ad un’unica civiltà planetaria, ma possono appartenere a diverse civiltà locali e soltanto assomigliare. Dire che ci sono delle civiltà scomparse è dire niente di nuovo. Qualcuna è stata trovata, altre sono sotto terra. Recente la polemica sull’Atlantide giapponese da parte di West. Potrebbe trattarsi dell’Atlantide planetaria o solo di una Atlantide locale. Il linguaggio del mito può far sembrare che si tratti degli stessi eventi, accadimenti simili. Non dimentichiamo la smemoratezza umana e la sua fantasia. Certo molte coincidenze potrebbero far pensare ad una civiltà planetaria, ma non è detto.
Non nego che sia potuta esistere una Atlantide planetaria, ma molte cose sono spiegabili con l’esistenza di più civiltà scomparse. Forse la civiltà umana nella sua evoluzione deve attraversare comunque delle fasi obbligatorie e questo potrebbe implicare la presenza di similitudini fra civiltà diverse sorte in epoche diverse in diversi luoghi. È un'ipotesi un po’ forte, perché sembrerebbe negare un certo libero arbitrio che si presume sia una caratteristica tipicamente umana. In realtà è ciò che fanno gli storici con la loro descrizione della storia mediante l’età della pietra, del rame, del ferro e così via. Quanto questa divisione è arbitraria è evidente, perché se la storia dell’uomo è come linea di trend improntata ad un continuo progresso, non si può certo nascondere i frequenti inceppamenti e ritorni al passato. Un po’ come l’indice di borsa. Nel lungo periodo si può dire che è sempre crescente, ma se si esaminano periodi più brevi si vedono anche i frequenti ribassi e addirittura i tracolli, come quello del 1929 o del 1986 o delle più recenti crisi, asiatica e russa e l’ultima, dei mercati dei titoli tecnologici. Questa ipotesi, per quanto forte, ha una sua validità, per lo meno a grandi linee o potremmo dire come linea di trend.
Un’ulteriore ipotesi è che siano vere entrambe, sia quella dell’Atlantide planetaria, sia quella delle Atlantidi locali. Quest’ultima è la più difficile da appurare.
Non mi azzardo a suggerivi quale delle tre possa essere la più attendibile.
La mia personale simpatia va alla terza ipotesi per un semplice ragionamento alla Murphy. Visto che le cose tendono sempre a complicarsi e mai semplificarsi e considerato che la terza è la più difficile da appurare e anche la più confusa, sarà sicuramente la più probabile. Naturalmente, prendete quest'idea per quella che è, un semplice escamotage per chiudere l’articolo con un guizzo di ironia, perché sinceramente non so dirvi quale delle tre ipotesi possa essere la più realistica.

Note:
1) Impronte degli dei pag. 247.
2) La massa dei ghiacci, col suo peso ha impedito in alcuni casi lo scorrimento delle varie placche. L’energia si è andata accumulando nei millenni. Lo scioglimento repentino dei ghiacci, oltre a provocare inondazione, ha liberato queste immense energie provocando terremoti e maremoti che si possono definire, senza esagerazioni, di proporzioni bibliche.
3) “Una scienza a prova di cultura” articolo di Sylvie Coyuaud, tratto da “Il Sole24ore” del 7/2/1999.
4) “Innovazione in Italia? Si provveda di ufficio” articolo di Giorgio Nebbia tratto da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 12/3/2000.




Tracce di Atlantide a Venezia?
di Daniela Bortoluzzi www.misteria.org
C'è un Mystero molto intrigante su Venezia al quale sto lavorando da anni: nell'isola di Torcello c'è una pietra rotonda incisa (assicurata con ganci metallici a un muro dove sono esposti altri reperti antichi - alcuni di epoca romana, altri molto precedenti - sulla piazzetta dove si affaccia il museo di quest'isoletta che, come è noto, fu il primo insediamento dei popoli che avevano trovato rifugio nella laguna durante la fuga dai barbari. In quest'isola, dove oggi risiedono 24 persone (!), un tempo venivano fabbricate le navi della Serenissima, quando ancora l'Arsenale di Venezia (il più antico del mondo) non esisteva.
Torcello esisteva prima di Venezia, e infatti la Cattedrale di Torcello è la più antica d'Europa.
Ma torniamo alla pietra esposta.
Si tratta di un *tondo* (una trentina di cm di diametro) inciso in tal guisa da farmi sobbalzare appena lo vidi la prima volta: non potevo credere ai miei occhi! La planimetria di Atlantide!!! Per lo meno quella descritta da Erodoto e da Platone.
Incredibili scoperte sono scaturite dalle mie ricerche successive, che mi hanno portato a una probabile origine di Venezia, completamente diversa da quella ufficialmente nota. Tra l'atro, durante una conferenza (6 dicembre 1981) tenuta dal parroco della Chiesa di San Nicolò dei Mendicoli, dopo il restauro grazie al Fondo Inglese e al Governo Italiano, ebbi modo di sentire con le mie orecchie che non ero l'unica a pensarla in modo non-ortodosso, per così dire... Il tema era: "Dalla Mendìgola all'approdo delle origini vere di Venezia". Dagli appunti presi al tempo, dai colloqui col sacerdote (che dopo poco fu mandato altrove, c.v.d.), dai suoi studi e dai particolari citati nei suoi scritti e documentati da foto, emerge quanto segue:
"È molto diffusa l'ansia di conoscere le origini di Venezia: ricerche di Istituti Universitari nelle isole e 'barene' di Torcello, affermazioni di supposti agganci romani, studi di toponomastica, biblioteche intere di
volumi su Venezia e la sua storia non avrebbero dato la notizia che tutti desideriamo, cioè che Venezia è una città che - per determinati, precisi elementi - risale a precisa epoca.
Siamo infatti persuasi che tessuto edilizio, sociale, religioso, folkloristico e soprattutto artistico potrebbero offrire segni di precise collocazioni non solo nello spazio, ma anche nel tempo.
Ma sembrerebbe proprio che la 'Venezia Storica' sia un'altra, e che quella che tutti conoscono sia invece la 'Venezia Cristiana', così ristrutturata e battezzata dall'opera di fervorosi cristiani del secolo V e VI d.C., con la chiusura di tutte le opere mitologica, specialmente nei templi e luoghi sacri; opera, che protraendosi sino a tarda epoca e cioè sino a tutto il 1700, ha reso del tutto irriconoscibile la Venezia arcaica.
Venezia arcaica? Sì, certo!
Facciamo pure un brevissimo excursus toponomastico: Burano è nome iranico e significa Eufrate; Sile è nome che ripete quello di un fiume egiziano; Mendìgola nel significato di barca, si rifà a Minasse, dal quale derivano i vari mìnoa o porticcioli. E vari altri nomi che noi siamo soliti usare familiarmente come Medoàco, Mandracchio, ecc.
Ma prima di dare un'occhiata alla città, compreso San Marco con i suoi cavalli, è necessario analizzare prima questa chiesa. Per considerarla obiettivamente bisognerebbe però compiere il gesto che fanno coloro che si accingono a entrare in una moschea: quello cioè di toglierci certi schemi della storia dell'arte e accantonare per un momento anche gli stessi schemi di lettura religiosa; avverrà per i ricercatori quanto è capitato a qualcuno: la visione di un fatto nuovo di una autentica verità.
Questa chiesa, spogliata delle sue strutture lignee dorate come lo fu nel 1902 - data legata alla caduta del campanile di San Marco - come la presentano foto di archivio della Sovrintendenza, si rivela con i suoi
armoniosi eleganti archi ornati di fasce nei colori dell'ocra e del verde e di ampi motivi floreali.
Allora non pare plausibile che nel 1400 -1500 ci si fosse preso il lusso di coprire con archi di legno le splendide arcate originali.
Ed è qui che il discorso si ferma - per quanto riguarda la descrizione di una chiesa medioevale, di una iconografia che non corrisponde ai canoni di una lettura cristiana - per aprirsi invece a una lettura completamente diversa, che per essere confortata da troppi elementi emersi qui e altrove mi permetto per amore di chiarezza di presentare articolata nei seguenti tre grandi tempi:
1. Tempo antico (2000 a.C.?);
2. Tempo medio (dall'VIII sec. a.C.);
3. Tempo recente (dal VII sec. d.C.).

Quanto segue è semplicemente presente non solo in questa chiesa, ma anche in tutti quegli edifici di Venezia e isole, che stilisticamente sono attribuiti al romanico, o al gotico, o al rinascimento, o al classico o anche allo stesso stile barocco.
Innanzi tutto un contesto:
Pare che un'emigrazione dalle isole dell'Egeo e in particolare dalle Cicladi, che facevano capo a Creta, sia giunta nelle lagune venete a partire dal 2000 circa a.C.
Sono tempi in cui i faraoni d'Egitto (Regno medio, XI e XII dinastia, Sesostri, ecc.) tengono rapporti commerciali e culturali con l'impero minoico e quindi con Creta, la cui capitale è Knossos/Cnosso. Riferendoci a Creta, e quindi a un famoso popolo dei mari, appare facile capire come mai la Venezia sia costruita con quella tecnica consumata che ha permesso alla città di superare ogni fenomeno geodinamico e giungere intatta sino a noi.
Questa gente immigrata in massa, era organizzata nei clan o in piccole tribù. Così è facile vedere come ogni clan occupi la sua isola, costruendovi - secondo le esigenze comuni a questa gente - prima la residenza del Principe, poi quella del clan, quindi la torre di preghiera.
Caratteristiche costruttive comuni e quindi riscontrabili in ogni edificio da loro costruito sarebbero le seguenti:
Per la residenza del Principe - luogo anche d'incontro della Comunità, che poteva assistere anche ai sacrifici agli dèi - all'esterno la presenza di vestiboli, all'interno dispositivi per la separazione di sessi con
distinzione precisa per delle zone riservate alla Comunità; presenza di matronèi, abside e finestra di presentazione per il principe nel fondo abside, ove veniva a trovarsi anche la zona sacra agli dèi.
L'edificio orientato con l'abside a est e facciata a ovest; misurazioni sui multipli del tre, del cinque e del sette; arcate a tutto sesto e arcate acute (sarà interessante scoprire la funzione dell'arcata acuta, che sarà
poi recepita e usata in modo completamente diverso).
All'esterno inoltre ci sarebbero ornamenti che si riferiscono al culto del toro, e che quindi danno subito l'idea di edificio sacro: alludo a volute vagamente a semicerchio, che altro non sarebbero che stilizzazioni delle
corna taurine.
Per la residenza del clan, la costruzione si svolge amplissima, a pianta centrale, abbondanza di cortili, logge e passaggi coperti (chiostri), ecc.
Adiacente alla residenza del clan, vi è per lo più la residenza stessa del Principe.
Per la torre, la costruzione si snoda a campate interne alte di solito tre metri, con travi poggianti su mensole (barbacani) marmoree. All'esterno, il coronamento a cuspide - affiancata da quattro cuspidine agli angoli, oppure a doppio spiovente oppure a dado - permetteva forse di essere ben individuata da lontano dai naviganti che potevano senza incertezze imboccare il canale giusto che permetteva l'accostamento alla residenza rispettiva. È forse una neo-ziqqurat?
I minoici erano gente molto ricca (erano possessori di miniere d'oro), per cui avrebbero portato nelle lagune tesori immensi mantenendo con la madre patria non solo rapporti affettivi, ma anche commerciali; hanno potuto costruire qui con abbondanza di materiali pregiati come lapislazzuli, metalli, ecc.
La tecnica usata nelle rappresentazioni sarebbe quella dell'incavo o del castone, dell'incisione, della glittica. La finezza delle opere apparirebbe tale da non escludere l'uso di strumenti per l'ingrandimento ottico dell'
immagine.
Ma in una non ben precisata epoca, un fenomeno marino di enorme portata avrebbe messo in crisi l'esistenza di questo popolo; si tratterebbe infatti di un'alluvione alta non meno di sei metri sul livello medio.
Il fango e la creta avrebbero coperto ogni cosa penetrando in profondità in tutte le incisioni murarie fuori e dentro gli edifici, coprendo così i cicli narrativi che erano evidentemente i libri di scuola di quei popoli.
Fango e creta profondamente penetrati nelle pareti vi sarebbero rimasti così per secoli, concorrendo - a causa dei sali presenti - ad un processo chimico di trasformazione che fece sì che il materiale alluvionale, non solo si pietrificasse, ma prendesse anche l'aspetto decolorito del muro su cui poggiava.

Seconda immigrazione
L'impero minoico - invaso dai Barbari 'ante litteram' (gli Elleni) - nel 1400 venne messo in ginocchio. Cnosso conquistata, reggia e palazzi incendiati: una vera distruzione.
Sorge nel continente Micene, espressione insieme e della forza ellenica, e della bellezza minoica.
Nel 1100 circa gli Elleni, ossia i Greci, vanno alla conquista di Troia e nell'VIII secolo iniziano quella colonizzazione al di là del Mare Egeo e Adriatico che li conduce a fondare la 'Magna Grecia', e a spingersi anche oltre le foci del Po.
Una di queste punte sarebbe giunta nelle lagune lasciando inconfondibili le impronte della loro presenza nelle colonne con capitelli ionici e corinzi e negli edifici che altrimenti non si potrebbero spiegare.
Sia i Minoici che i Micenèi sono popoli religiosamente legati ai culti che sono comuni a tutto il Medio Oriente: il culto dei morti, della barca, del serpente, della dèa madre, del toro e forse della Vergine nel cielo.
Particolarmente ricco il culto dei morti con relativi riti di esequie: i Minoici seppellivano i morti dopo aver usato anche l'imbalsamazione; i Micenèi, invece, li bruciavano, collocando le loro ceneri in vasi di vetro
che riponevano nei tabernacoli.
I Micenèi giunti nelle lagune non pensano affatto di disidratare i muri dal fango, ma stendono sulle stesse pareti - con la tecnica dell'affresco - gli stessi cicli rappresentativi delle loro credenze, che seguono l'impianto di quelli coperti.
Particolare interesse può suscitare il fatto che sarebbero proprio i minoici il popolo che accoglierà nelle proprie isole i terrafermieri fuggiaschi a partire almeno dal V secolo d.C. con un tocco ancora più generoso e più ampio nel secolo VII, quando giungono i cristiani con i loro Vescovi e con le Sante Reliquie.
Evidentemente, l'impatto tra cristiani e pagani è del tutto pacifico, sebbene il paganesimo fosse ormai in piena decadenza avendo cominciato forse a subire i primi colpi dai cristiani della prima ora, che erano molto
probabilmente i fervorosi nepoti dei cristiani istruiti e battezzati dagli stessi Apostoli SS. Pietro e Paolo.
Il cristianesimo nei confronti del paganesimo, ora visto come dottrina superiore e liberatoria dalle paure degli dèi adirati e dalle impressionanti favole, al punto che essi - pagani - si vergognavano di essere ancora
adoratori di animali e furono affascinati dal prestigio che alla religione cristiana avevano dato i martiri, e continuavano a dare i Vescovi con la loro sapiente dottrina.
Non dimentichiamo che nel IV secolo le regioni che vanno dal Piemonte alla Lombardia al Veneto, sono ormai cristiane; S. Andrea di Vercelli, S. Massimo di Torino, S. Ambrogio, S. Girolamo, saranno per sempre stelle fulgide per la Chiesa d'Occidente.
Allora sarà possibile che, proprio con entusiasmo di popolo, a partire almeno dal VII secolo, ci si dà a coprire ogni rappresentazione mitologica con l'uso di qualsiasi materiale cementizio: gesso, calce, marmorino, intarsio marmoreo, ecc.
Nella chiusura saranno interessate innanzitutto le immagini offensive della fede o giudicate non lecite, mentre si opterà per un riutilizzo - con significato diverso - di tutto ciò che sarà possibile conservare.
L'operazione, iniziata agli albori del Cristianesimo in Venezia, continuerà quasi a tappe sino a tutto il 1700; il che significa che non sempre si avevano a disposizione i materiali e artisti, e che la massa d'opere era
immensa al punto che moltissimo di queste che noi siamo soliti attribuire all'epoca classica del '500, altro non sarebbero che opere originali fortunosamente sfuggite all'azione dei mimetizzatori.
Ora è più facile capire la cronaca là ove è scritto che attorno al 1.000 Venezia era tutta un cantiere: così il Galliciolli! Infatti i cristiani solo a tempi lunghi poterono avere a disposizione un alloggio decente.
Essi, venuti dalla terraferma, fuggiaschi, privi di tutto, avevano dovuto sistemarsi in case di tavola e paglia (i famosi casoni); poi, attorno al 1000 - appunto - riusciranno a costruire le loro casette familiari o a schiera, o in calle oppure a campiello. Nei grandi palazzi dei clan si erano forse sistemate le grandi famiglie patrizie come i Ca' Giustinian, i Ca' Roman, i Ca' Vendramin, ecc.
Gli incendi, di cui tutte le cronache di Venezia riferiscono anche le date (1105, 1114), altro non sarebbero che roghi festosi con i quali si celebrava l'entrata ormai nei palazzi e ancor di più nelle chiese: sarebbero i fuochi celebrativi della Venezia rinata alla fede cristiana.
Si può quindi accettare il 25 Marzo del V secolo, come primo esercizio liturgico nella prima chiesa di San Giacometo, da pagana diventata cristiana.
La vita civile va assumendo una fisionomia sempre più consona alla Fede, cui concorre l'opera degli stessi dogi. Si continua l'attività commerciale con l'Oriente e Venezia si muoverà tra le isole dell'Egeo come sorella tra sorelle di palazzo.
In questo contesto mi pare che difficilmente si potrà dare ragionevole credito ad una storia dell'arte che per Venezia è fatta con una scadenza di stili poco più che centenaria.
Lo stile è frutto di esigenze di vita: ora ogni cambiamento di stile suppone una trasformazione o un trauma o una metamorfosi collettiva di un popolo, che solo a distanza di millenni si può riscontrare.
Detto tutto questo come impostazione generale, veniamo ora a vedere se questa chiesa e altri monumenti cittadini offrono prove dell'argomento.
La Chiesa di S. Nicolò, nella fase primitiva - ossia antica - appare tutta scolpita dentro e fuori. La costruzione ha riferimenti precisi alla 'barca dei morti', ossia alla 'barca del Sole', che va da Oriente a Occidente. Infatti, se vediamo la chiesa rovesciata, osserviamo che il tetto fa da chiglia, che le arcate con colonne sovrapposte sarebbero rappresentazioni del seno materno della Terra con tanto di monumento funebre sui morti rappresentati nella scultura delle pareti: si sa che attorno al 3000 a.C. veniva data ai morti sepoltura con collocazione fetale.
La chiesa presenta uno sghembo (inclinazione) ben visibile anche nella gondola; al tetto vi è una ruota piena in funzione di puleggia d'armamento; una delle arcate è sostituita da una soglia (architrave), probabile porta di entrata dei morti.
Dalle zone riservate alle donne e alle donne era possibile vedere - dipinta sopra una grande tavola - la barca del defunto, sostenuta da quattro colonne all'altezza o al posto dell'attuale iconostasi. Oltre queste colonne il mègaron o sala di accoglienza, chiusa da sedili di legno istoriati con la tecnica dell'incisione, a due metri dal mègaron vi è la zona sacra (attuale presbiterio) indicata da corna di consacrazione che affiancano l'altare.
Dietro l'altare, nel fondo dell'abside, la finestra di presentazione dalla quale il Principe assisteva ai sacrifici: la principessa vi assisteva dal matroneo nel fondo della chiesa (attuale cantoria).
Che gli uomini partecipassero da zona separata da quella delle donne, fa fede il fatto che la transenna di separazione era ancora in piedi nel 1580.
Tutta la chiesa aveva livelli diversi degli attuali: dai 50 cm nelle navi, si arrivava a 90 in crociera e a 1 metro e 20 all'abside sotto l'attuale pavimento.
La zona delle cappelle era segnata da stanze alternate a cortili-luce interni.
Vi era un altare per ogni settore di persone, ove si potevano porre resine ed incensi sino a coprire le immagini scolpite o incise sopra l'attuale mensa.
A Pellestrina, l'altare è anche affiancato da due rappresentazioni di faraone spiritualizzato. All'esterno vi erano due vestiboli: uno per gli uomini e uno per le donne. In facciata, le sale mensa e i servizi di cucina. L'alluvione preistorica è qui presente con il fango sino a quota superiore i cinque metri in presbiterio.
Nella seconda epoca, o epoca media, i Greco-Minoici vengono a Mendìgola. Notiamo che questa isola è la più a Ponente tra quelle del centro storico. A quanto pare si svuota la chiesa dal fango che si depositava appena fuori, in campo, così da formare quella montagnola che sarà lamentata dai Gastaldi del 1500 in Pregàdi. Le pareti vengono ornate di affreschi con la ripetizione delle rappresentazioni funebri o di vita in relazione all'uso di zona; per esempio, nel giro dell'abside è presente la scena dei sacrifici e della sepoltura.
Ci si accorge però ben presto della fragilità degli affreschi. Per rappresentare al vivo la barca, si ricorre allora all'uso del legno e si costruiranno le centine, che portano maschere di mummie o dignitari di corte
con tanto di vestiti a fiori in viaggio verso il Creatore, mentre le prefiche - con cenni - indicano l'Occidente come luogo di pace e di riposo, e lanciano per aria grida lugubri di lutto e di pianto.
Le centine - in legno e ornate di finissima trina d'oro - sono collocate in senso traverso a formare cinque campate, mentre il grande tavolone della barca viene tagliato ad arco per collocarvi al suo posto le statue del Principe defunto attorniato da persone in pianto. Vi è anche il barcaiolo, che con una lunga pertica scandaglia il fondo del canale.
Il rialzo dei pavimenti aveva necessariamente comportato la sopraelevazione della tribuna. La si rialza quindi di un metro e venti e la si affianca da quattro colonne corinzie sulle quali è steso un baldacchino sormontato da conchiglia fiorita su cui sovrasta la croce cretese dorata.
Anche nel mègaron, la sostituzione del tavolone aveva comportato la sostituzione delle due colonne centrali di supporto, che avrebbero costituito una disarmonia per il rialzo dei livelli.
La sostituzione si fa collocando a sostegno dell'iconostasi sei statue longilinee in funzione di cariatidi.

Tempo recente
Tutto il territorio veneto a partire dal V secolo d.C. è sotto pressione dei Barbari. Neppure Aquileia resiste e con essa sono travolte Oderzo, Jesolo, Equilio, Altino e tutte le cittadine e paesi di un territorio pieni di vita.
Nel secolo VII l'invasione fu tale che a decine di migliaia i terrafermieri scapparono rifugiandosi nelle isole assieme ai loro Vescovi e Santi.
Inizia nelle isole quella trasformazione cristiana che a Mendìgola è presente in modo più eloquente.
La prima trasformazione del monumento della 'barca' si fa trasformando le centine lignee adattandole alle arcate laterali. I dignitari di corte diventano gli Apostoli, le rispettive prefiche gli angeli, e perfino l' iconostasi cambia la sua fisionomia quando al posto del grande capitano della barca dei morti si colloca un Crocifisso dipinto su tavola.
Evidentemente, l'operazione iconostasi si fa alquanto più tardi o forse verso il 1200, quando la statua del principe è adattata a fungere da statua di S. Nicolò. Le statue cariatidi vengono ricoperte dalle eleganti
colonnelle, mentre tutte le colonne delle navate vengono ricoperte di gesso e calce.
Si mimetizzano anche gli affreschi ricavando da figurine originarie le immagini di Santi come avviene all'abside, ove al centro si riesce a ricavare l'immagine del primo Patrono S. Lorenzo martire rinchiudendo due volti entro un'aureola.
Come già detto, anche per la povertà della gente che vive di pesca, di caccia e di ortaglie, l'operazione si svolge sui tempi lunghi. Coperte le pareti, intarsiati gli altari, messo nelle tolelle sopra le mense, si giunge al 1550 per rivestire la chiesa di quadri con le storie dell'Antico e Nuovo Testamento, ossia con la Bibbia dei poveri, al 1500 per la chiusura della 'Porta di Presentazione' per ricavarne una nicchia per la statua del
Patrono.
La loggia-matroneo diventa sede dell'organo e nel 1700 la cappella con l' altare funebre della zona degli uomini diventerà altare del Sacramento.
All'esterno il vestibolo di facciata diventa fin dal mille la nuova sede o schola dei pescatori; il vestibolo laterale sarà demolito nel 1700 con un seguito di critiche che hanno dato al Tassini il motivo di ricamare la
leggenda delle tre statue di pietra tenera collocate in nicchie pagane da prè Zaniol.
La sala mensa era diventata - assieme alle altre stanze tra facciata e campanile - un desiderato rifugio di suor Sofia o suor Agnese un gara che intendevano vivere qui come in un romitaggio.
Contemporaneamente a quanto accadeva in S. Nicolò, si operava alla trasformazione della residenza del clan, il grande edificio cui andarono in possesso i padri riformati di S. Bonaventura. Questa imponente costruzione minoica sarà destinata a diventare in seguito il monastero di Carmelitane di Santa Teresa.
Anche la torre di preghiera cessa di rimanere tale. Servirà ben presto come torre campanaria, ove nel 1700 (per la collocazione delle campane e dell'orologio) si arriva ad abbattere ben cinque solai dei sette esistenti in pianta.
Altri monumenti insigni della città furono manipolati in modo simile.
In S. Marco il primo atto fu quello di smuovere la quadriga dalla sua secolare sede per condurre i cavalli in scuderia; la statua del Principe, dal sommo dell'arcata a ogiva, diventerà S. Marco in gloria; all'interno si
comincia la modifica dei mosaici e loro sostituzione con temi biblici. La stessa iconostasi cessa di essere struttura egea per diventare struttura liturgica con statue di Apostoli e Crocifisso dipinto su tavola.
In seguito, i Dalle Masegne copriranno con marmi a intarsio tutta l'iconostasi e sostituiranno con un Crocifisso grande quello dipinto, che viene collocato sopra l'altarino di navata laterale sinistra.
I dogi profondono tesori, per fare della reggia del principe defunto la Cappella di Palazzo Ducale. E toccherà al Dandolo, dopo la vittoria su Costantinopoli, riprendere i cavalli e ricollocarli sulla loggia, ma più in basso, e sopra umili rocchi.
Con la basilica, anche il palazzo del governo della polis greca subiva trasformazione di connotati per diventare palazzo del doge.
Le grandi basiliche con annessi conventi come i Frari, i Santi Giovanni e Paolo, le chiese con vaste case canoniche, altro non sono che adattamenti intelligenti di strutture già preesistenti.
In tutta questa opera di mascheramento, e quindi di adattamento per un cristiano riutilizzo, si vede l'intelligenza e lungimiranza degli Uomini di Chiesa.
Alla Mendìgola, giungevano infatti offerte pro reparatione et aptatione; si mettevano depositi nei banchi di Castello e in Montevecchio.
Leggiamo pure che nel 1592 il Patriarca Priuli, in visita pastorale, loda Gastaldi e clero, per aver 'reduta la giesia' secondo i piani prestabiliti.
Oggi persone responsabili sono tra loro divise per la questione se rimettere o no gli altari detti barocchi nella Chiesa di S. Donato. Pare che la questione posta al di fuori di questo contesto presenti difficoltà notevoli
per una soluzione storicamente valida.
Si sta ponendo mani al restauro della Basilica di Torcello. È tramandato che il grande mosaico dell'Apocalisse sarebbe stato rimaneggiato verso il 1.100. Si tratta di un rimaneggiamento cristiano di un'opera pagana di cui sarebbe rimasta intatta la rappresentazione demoniaca? E il cosiddetto battistero di facciata era forse un vestibolo, come lo poteva essere la chiesa laterale di Santa Fosca? Sono ancora al loro posto le serrande marmoree alle finestre della navata nord!
Evidentemente, non si usava ancora il vetro per le vetrate di una costruzione che ha tutti i segni indicativi di un potente clan qui residente!
Dalle basiliche delle isole e del litorale nord e sud, la considerazione che moltissime isole, già abbandonate dai religiosi a partire dall'800, diventate preda di ladri, distrutte le chiese e i monasteri, si fa non solo
amara, ma assume il carattere dello sdegno. Com'è mai possibile che proprio in quest'epoca sia stato permesso un simile degrado di un patrimonio archeologico di valore inestimabile?
Si veda S. Giorgio in Alga, si veda Santo Spirito (in quest'isola, non più di 20 anni fa, si potevano ancora ammirare le travature dorate della chiesa (già reggia del principe) e il pozzo stupendo!
Tutto scomparso, rubato. Non parliamo delle isole dell'estuario nord! Dai nomi ancora pieni di fascino! Ridotte a cumuli di macerie! Nutro speranza che una visione diversa della città - veramente unica, perché risparmiata da distruzioni telluriche, da flagelli bellici, ancora funzionante e funzionale - spinga i responsabili a rivedere tanti loro progetti, compresi quelli ritenuti di massima urgenza!
Un momento di sosta al letto di questa ammalata, che poi ammalata ancora proprio non sarebbe, ma solo desiderosa che le sue pietre siano disidratate dal fango plurimillenario in mezzo al quale e sopra il quale i veneziani mangiano, dormono e vivono, e che vengano ripasciute quelle isole e quelle lagune che da sempre l'hanno protetta, anche dalle più grandi alluvioni se si trova ancora in piedi dopo circa quattromila anni.
Dopo quanto detto, trovo scritto che l'architetto Mozzi, che ha toccato con mano la carne di Venezia in profondità, affermava che i materiali di silicati in occasione di scavi a Palazzo Papadopoli, a S. Michele di
Zampanigo (Burano) erano da attribuirsi a popoli dell'Asia, e secondo il Ghelthof l'ascia di cloromelanite - ritrovata a profondità sostenuta - è da attribuirsi a 'popoli che abitarono la laguna circa 4000 anni fa'.
Un supporto anche letterario viene da quanto è stato affermato nella famosa lettera di Cassiodoro ai Tribuni dei Marittimi: 'Voi - scrive - che abitate le isole che il mare ora copre ora discopre come fa nelle Cicladi'.
Il ministro del Re Longobardo di Ravenna - chiedendo le barche ai lagunari per fronteggiare i barbari - credeva, politicamente, di fare cosa gradita nominando loro le isole della Madrepatria.
Rimane male il Klotz quando afferma che i vasi minoici trovati a Torcello potrebbero essere soltanto oggetti smarriti da qualche mercante.
Forse è tutta da rivedere in chiave nuova, non solo la storia delle origini cristiane, ma anche la liturgia cosiddetta patriarchina presente fino al Concilio Vaticano II, con i suoi riti, canti, e suppellettile liturgica non
solo nel centro storico, ma anche nelle isole; la vicenda dei Santi e perché si andasse tanto in cerca di Reliquie. Credo che qualche cosa di concreto in quell'opuscolo già pronto che avrà per titolo: 'Dalla Mendigola all'anno zero di Venezia'.
Molto rimane da dire circa i campanili, partendo proprio dalla torre di S. Nicolò. Le ricerche evidentemente si faranno sempre più ampie e interessanti, se anche i mezzi e gli strumenti scientifici saranno messi a
disposizione. Comunque sia, facendo onore al suo nome, Mendigola, la barchetta dei morti, sarebbe approdata per prima alle sponde delle origini di questa meravigliosa città".
Ma come? Non si era sempre detto che 15 secoli fa, Venezia ancora non esisteva, e c'erano solo paludi e isolette sparse nella laguna, nelle quali trovarono rifugio i popoli in fuga... ecc. ecc.? Io che ho studiato la storia di Venezia per anni, mi sono sempre meravigliata di questa origine nebulosa, come del fatto che non si conoscesse con certezza l'autore della Chiesa di San Marco. Possibile che l'architetto (un improbabile frate) non abbia lasciato un'impronta? E pensando agli altri monumenti antichissimi di cui si ignora l'autore e che si sono voluti per forza attribuire a qualcuno per creare un alibi storico... non trovo nulla di strano nel pensare a tracce di Atlantide in laguna! Ma di certo è più comoda l'idea che Attila abbia soggiornato a Torcello e si sia fatto costruire un trono di marmo per sedersi. Anche se, in verità, c'è un impatto molto suggestivo per il turista, tanto che si siede sul 'Trono di Attila' per farsi fare la foto...
Una domanda potrebbe essere: 'Da chi avevano imparato, i primi popoli della laguna, la tecnica dell'imbonimento delle barene e della costruzione fissa su palafitte (milioni di tronchi di larice conficcati uno vicino all'altro, tanto da formare una serie di piattaforme - da collegare con ponti - su cui edificare palazzi che sarebbero sopravvissuti per millenni)? Sarebbe ragionevole pensare all'esperienza di un popolo di mare! E poi, chi avrebbe mai pensato di costruire un arsenale? Non credo all'ipotesi dei popoli di terra scampati alle invasioni, ma piuttosto a gente che necessita di navi, perché conosce il mare e quindi ne ha bisogno per andare verso i luoghi che conosce...
Gli Egei e tutti i popoli del Mare Magnum, non abitavano forse quelle isole legate oggi a ritrovamenti archeologici imbarazzanti, tanto da far ipotizzare origini atlantidee, e formulare varie ipotesi al riguardo? Con questi presupposti, nell'ipotesi Atlantide = Razza Evoluta sopravvissuta in alcune zone del globo, Venezia potrebbe essere la fase finale di una di queste filiere, forse l'unica sopravvissuta!
Pochissimi conoscono il significato del nome Venezia. Dal latino veni etiam (torna di nuovo) sarebbe la prova che una città insolita come questa lascia al viaggiatore il desiderio di ritornare ad ammirarla. Tuttavia, se Giulio Lorenzetti interpreta l'etimologia in questo modo, io credo che ci potrebbe essere un'altra interpretazione: 'tornai' (sottintendendo un precedente esodo). Nella mia ipotesi, dopo una prima immigrazione di popoli egei scampati a un evento catastrofico (per esempio il terremoto e inabissamento di Tera) e rifugiatisi nella parte più interna e sicura della laguna (isola di Torcello), avrebbero iniziato - appena le condizioni lo avessero permesso - a progettare un viaggio per mare con l'obiettivo di controllare se fosse possibile un eventuale ritorno la patria di origine. Costruirono le navi, e mentre le paludi imbonite e le prime palafitte prendevano l'aspetto di isolette abitate, fecero rotta per la madre patria... che ritrovarono in condizioni di completo sfacelo e completamente saccheggiata. Fu probabilmente a quel punto che decisero di ritornare a nord, in quella laguna difesa naturalmente dalla sua posizione geografica: da quel ritorno definitivo, ebbe inizio una grande tradizione di navigatori, commercianti, ingegneri e architetti.





I sopravvissuti al Diluvio Universale
di Galileo Ferraresi

Fino alla fine del 1800 si pensava che il Diluvio Universale fosse una sorta di favola o mito religioso della bibbia (genesi 8,4) senza nessun punto in contatto con la realtà ma verso il 1880 iniziarono a circolare le prime copie della traduzione dall’accadico dell’Epopea di Gilgamesh, testo assiro in cui, con nomi diversi, si propone la stessa situazione del Diluvio biblico. Una storia senza contatti con la realtà può esistere, ma due cominciano ad essere un indizio, direbbero gli eroi dei romanzi gialli.
Quando si parla di Diluvio si fa una piccola confusione: si parla sia di piogge improvvise e che durano per tantissimo tempo e si parla anche di un’innalzamento enorme delle acque dei mari dovuto alla pioggia. Si pensa che la pioggia abbia innalzato il livello dei mari al punto da sommergere tutte le terre. È semplicamente impossibile: nella Terra e nell’atmosfera che la circonda non esiste la possibilità di avere tanta acqua. Si tratta di due cose diverse: una pioggia che durò per tantissimo tempo e una (o più di una) onda che travolse tutto, ove per “tutto” si intende quello che conoscevano i pochi sopravvissuti.
Se vi trovate su un’imbarcazione sollevata da un’onda vi sembrerà che “tutto” il mondo (costa o altre barche) sia in basso, e più l’onda è alta più sembrerà che il mondo che vi circonda sia inghiottito dal mare. Non c’è nulla da fare, l’uomo è fortemente egocentrico e come tale trova più semplice pensare che il mondo venga inghiottito dalle acque piuttosto che pensare di essersi alzato dalla superfice su cui si trovava poco prima.
Ai primi del 1900 furono avvistate per la prima volta i resti dell’Arca di Noè, o di qualcun altro, nei pressi di un ghiacciaio sul monte Ararat in Turchia ad un’altezza di circa 3500 metri. Furono effettuate decine e decine di spedizioni, riportati anche alcuni campioni di legno fossile dell’Arca e scattate delle foto[1].
Il mito del Diluvio ha ormai assunto connotazioni assurde: non si può ammettere che sia piovuto tanto da portare una nave di 110 metri di lunghezza a oltre tremila metri perché non può esistere tanta acqua sulla Terra, non si può pensare che qualcuno abbia costruito una nave a quell’altezza e in un luogo dove, con le moderne tecnologie, si riesce a resistere per pochissime ore, eppure la nave è là e dimostra che qualcosa di “particolare” deve essere successo.
Nel 497 a. e. v. Platone scrisse Il Timeo, il testo più citato da Aristotele, in cui si tratta della sfericità della terra, del suo movimento, del movimento delle stelle e dei pianeti, e in cui compare un’affermazione a dir poco interessante.
Un sacerdote egiziano di Sais (l’antica capitale culturale, politica ed amministrativa dell’Egitto) parlando con Solone gli disse: "Voi greci siete giovani e non sapete nulla di ciò che successe[2]… gli uomini sono stati distrutti e lo saranno ancora in vari modi. Dal fuoco e dall'acqua ebbero luogo le distruzioni più grandi, ma se ne verificarono altre di molti altri tipi come la leggenda che si racconta presso di voi che Fetonte rubò il carro del dio sole e non riuscendo a condurlo sul percorso normale incendiò tutto quello che c'era sulla terra e morì lui stesso[3]… La verità é questa: a volte si verifica una deviazione del movimento dei corpi che circolano in cielo. Ad intervalli di tempo molto grandi tutto ciò che é presente sulla Terra finisce per eccesso di fuoco. Coloro che abitano le montagne e i luoghi secchi muoiono più di coloro che vivono vicino ai mari e ai fiumi. Al contrario, quando gli dei purificano il mondo con l'acqua, tutti coloro che vivono vicino ai fiumi e ai mari sono travolti dalle acque e si salvano solo coloro che vivono sulle alte montagne, così si salvano solo i rozzi montanari e la civiltà deve ricominciare da capo.[4]"
Non vi sono dubbi sul fatto che il sacerdote parlasse di distruzioni avvenute varie volte sulla faccia della Terra, generate da fattori differenti, avvenute in tempi antichi ma pur sempre durante l’esistenza dell’uomo. Lo scritto cinese in cui si parla di alluvioni dovute ai fiumi che invertirono il loro corso trova una precisa corrispondenza in Platone quando riporta l’affermazione sulla distruzione dovuta all’acqua. La Cina e l’Egitto parlano di distruzioni simili.

L’Agricoltura
Dodicimila anni fa ebbe luogo la rivoluzione paleolitica: gli uomini iniziarono a coltivare la terra. Questo fenomeno avvenne contemporaneamente in tutta la terra. Dopo più di centomila anni d’esistenza improvvisamente l’homo sapiens inizia a coltivare. Perché non prima, perché non dopo, perché tutti assieme e contemporaneamente ma soprattutto perché gli uomini di tutto il mondo iniziarono a coltivare sulle montagne? Tutti sanno che si fa meno fatica a coltivare in pianura che in montagna, nessuno se non vi fosse obbligato dalla necessità coltiverebbe i terreni montagnosi. I tre luoghi più fertili della terra sono la pianura Padana, la valle del fiume Giallo e il delta del Mekong, eppure l’uomo del paleolitico che è stato in grado di realizzare la più grande invenzione della storia, l’agricoltura, nonostante avesse tutta la terra di questo mondo a disposizione è stato tanto scemo da iniziare a coltivare in montagna.
Il famoso botanico russo Nikolai Ivanovich Vavilov (1887-1943) scoprì che l’agricoltura ebbe inizio contemporaneamente in tutto il mondo negli altipiani oltre i 1500 metri d’altezza. Questa scoperta coincide straordinariamente con le affermazioni di Platone nella Repubblica in cui dice che la civiltà nacque sugli altipiani e con le affermazioni del sacerdote Egizio citato nel Timeo secondo il quale dopo una catastrofe da acqua si salvano solo i montanari e la civiltà nasce di nuovo. Ma non è tutto, dagli studi di Vavilov e di J. R. Harlan si deduce che l’agricoltura iniziò circa 11.600 anni fa, la stessa data a cui Platone fa risalire la distruzione di un continente mitico, Atlantide. Platone dice che Atlantide fu distrutto 9.000 ani prima di Solone, se consideriamo che visse 2.600 anni fa abbiamo che la fine di Atlantide fu nel 9.600 prima dell’era volgare, 11.600 anni fa, esattamente la data calcolata dai botanici.
Per spiegare il perché dell’agricoltura in montagna proviamo a pensare che cosa può essere accaduto quando l’asse terrestre si è spostato.
Supponiamo che un grosso meteorite abbia colpito la terra, nel luogo dell’impatto e per varie centinaia di chilometri tutto è stato immediatamente distrutto dall’urto e dall’energia sprigionatasi poi l’asse terrestre ha iniziato a spostarsi provocando ovunque terremoti, crolli e frane, l’acqua degli oceani a questo punto spinto dalla massa dei continenti in movimento ha iniziato ad allagare le terre che si spostavano verso di lui e a ritirarsi da quelle che si allontanavano dalla posizione precedente. Dopo essere penetrato nelle pianure il mare ritirandosi ha formato un’onda di dimensioni enormi che richiamata dal vuoto lasciato dal lato opposto degli oceani ha percorso varie volte la terra distruggendo tutto quello che trovava sul proprio percorso. Finita la forza distruttrice le terre sotto i 1500 metri d’altezza si sono trovate allagate, o comunque inzuppate d’acqua di mare che, essendo salata, non ha permesso la coltivazione fino a quando, secoli, millenni dopo l’acqua piovana non ha completamente dilavato il sale permettendo la coltivazione in zone più basse. Le prime coltivazioni fuori dagli altipiani e le prime civiltà sono dislocate lungo le valli dei fiumi partendo dall’alto. I pochi sopravvissuti a questo cataclisma furono, come scritto nel Timeo, le persone che in quel momento erano in montagna, oltre i 1500 metri.
Se una cosa simile succedesse oggi quante persone si salverebbero? Pochissime, non sappiamo se sarebbero montanari rozzi come scrive Platone, ma di certo sarebbero pochissime e difficilmente e solo a prezzo di grandi stenti riuscirebbero a procurarsi da mangiare e a far rinascere la civiltà ripartendo dall’agricoltura “sugli altipiani”.

Note
[1] Fatto “curioso” è che le foto sono identiche al disegno dell’arca sul monte Ararat che compare nella carta del mondo di Grazioso Benincasa nel 1492. I cartografi del ‘400 conoscevano il mondo meglio degli astronauti USA di 500 anni dopo!
[2] Platone, Timeo, 20e.
[3] Platone, Timeo, 22b
[4] Platone, Timeo, 22d

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20 replies since 11/7/2007, 17:19   10402 views
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