Atlantide, il continente perduto

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jasmine23
view post Posted on 17/7/2007, 11:18 by: jasmine23




LA FINE DI ATLANTIDE
di Alberto Arecchi

Immaginiamo di ritornare indietro nel tempo, 3300 anni fa, intorno all’anno 1300 a.C. (ossia novemila mesi - e non novemila anni - prima di Solone, dalla cui narrazione il filosofo Platone trasse le proprie informazioni su Atlantide).
Quello che oggi è il Mare Mediterraneo doveva essere a quel tempo distinto in due mari, posti a quote diverse e privi di comunicazioni reciproche.
Ad ovest, il bacino costituito dal Mediterraneo occidentale e dal Tirreno era - come oggi - in comunicazione con le acque dell’Oceano, attraverso lo stretto dell’attuale Gibilterra, che si era aperto più di mille anni prima, e le sue acque avevano ormai raggiunto un livello simile a quello odierno, grazie all’apporto costante garantito dall’apertura di quella bocca di comunicazione con le acque oceaniche.
Un secondo mare, ad est, andava dalla Piccola Sirte alla costa siro-palestinese e comprendeva lo Ionio, il basso Adriatico e il Mar di Candia (mentre il territorio Egeo, tutto emerso, costituiva una vasta pianura costellata di rilievi montuosi di origine vulcanica). Esso era ben separato dal primo, perché al posto dello stretto di Messina esisteva un istmo roccioso e quello che oggi è il canale di Sicilia era allora una fertile pianura, irrigata da fiumi e protetta da alte montagne, che scendeva dolcemente verso le sponde del mare inferiore.
Le acque del Mediterraneo orientale dovevano trovarsi ad una quota di circa 300 m sotto quella odierna. Faremo riferimento a questa quota come “livello zero” per misurare le altitudini relative.
All’estremo occidente del Mediterraneo orientale, non lontano da dove ora si erge l’isola di Malta, due strette imboccature davano accesso ad un grande golfo, profondo oltre mille metri. Intorno a quel golfo, protetto alla sua imboccatura da una vasta isola, era sorta una civiltà fiorente, fondata da una stirpe libica che era forse scesa sino a qui dalle alte montagne del sud.
Chi fosse provenuto da oriente, da Creta o dall’Egitto, avrebbe visto una costa rocciosa, piuttosto ripida, nella quale si aprivano due stretti, ai lati di un’ampia isola, con un’estensione compresa tra 11.000 e 17.000 km2, che si ergeva sino ad una collina di circa 150 m. I due stretti a nord e ad ovest dell’isola misuravano tra i 15 e i 30 km. Poteva però essere anche una penisola, con un solo stretto alla sua estremità nord, quale unico accesso al grande golfo.
Possiamo identificare in questo sistema di stretti le “colonne d’Eracle” dell’antica mitologia (e una delle due “colonne” appare identificabile nel massiccio roccioso dell’attuale isola di Malta).
Le alture più elevate di quel sistema emergono ancora dal mare del canale di Sicilia e sono: Pantelleria, le isole Pelagie (Lampedusa e Linosa), le isole maltesi. Lungo la sponda settentrionale del golfo si ergeva un sistema di rilievi, un po’ più elevato di 500 m, che dominava il panorama (le attuali isole maltesi); le coste meridionali erano un po’ più dolci, ma un lungo e piatto rilievo si elevava vicino al mare, sino ad oltre 400 m dal pelo delle onde, e di fronte ad esso, non lontano, un’alta isola sorgeva dalle acque del bacino (le attuali isole di Lampedusa - la prima - e di Linosa, quella staccata dalla costa). In direzione nord-ovest, in fondo al grande golfo, si stagliava un imponente picco vulcanico, alto più di 1100 m dalle acque del mare. Per usare un chiaro riferimento attuale, si trattava di quella che oggi conosciamo come l’isola di Pantelleria. Dietro di essa, a nord, la costa saliva a delimitare l’orizzonte, per un’altezza di almeno 300 m. Al di là vi era l’altro mare, che riceveva ormai da secoli l’apporto delle acque dall’Oceano, e da lì “era possibile raggiungere le altre isole per coloro che allora compivano le traversate e dalle isole a tutto il continente opposto, che si trovava intorno a quel vero mare (pontos)... Infatti tutto quanto è compreso nei limiti dell’imboccatura di cui ho parlato appare come un porto caratterizzato da una stretta entrata: quell’altro mare, invece, puoi effettivamente chiamarlo mare e quella terra che interamente lo circonda puoi veramente e assai giustamente chiamarla continente.” (Platone).
Quel mare, che era da secoli in collegamento con le acque dell’Oceano tramite la bocca di Gibilterra, era molto vicino a debordare al di qua della sua sponda e a dilagare verso il golfo ed il Mediterraneo orientale, posti ad una quota più bassa. Questa era la vera maledizione pendente sul capo del popolo (Atlanti-Tjehenu) che abitava quelle terre, ma essi forse erano convinti che la situazione di precario equilibrio potesse durare in eterno, così come essi l’avevano sempre vissuta.
Ad ovest del “porto” o golfo che abbiamo descritto si stendeva un’ampia, fertile pianura irrigua, che ritorniamo a descrivere con le parole usate da Platone. Essa riceveva da nord le acque della Medjerda, che oggi scendono al mare non lontano da Tunisi, mentre da ovest poteva essere abbondantemente irrigata grazie alle acque provenienti dall’ampio “mare” interno, le cui acque dovevano essere piuttosto dolci. Quell’estensione di pianura corrisponde, per misure e caratteristiche fisico-climatiche, al territorio descritto da Platone: la distanza dalla chiusura del golfo, verso sud, sino alle sponde del Mediterraneo occidentale, è di 540 km (tremila stadi), e quella dalla costa del golfo sino ai rilievi alle spalle della pianura, che delimitavano il mare interno, di 360 km (duemila stadi).
Il filosofo narra che gli abitanti di Atlantide coltivavano - fra l’altro - datteri e banane, in mezzo ad una fauna in cui spiccava la presenza di elefanti.
Dalla costa, la pianura saliva dolcemente verso ovest, in direzione di una cresta di colli di origine vulcanica, ricchi di giacimenti metalliferi, dalla struttura morfologica in prevalenza tufacea. Al di là della cresta, a circa 450 km di distanza dalle acque del Mediterraneo, si stendeva un enorme bacino d’acqua: un vero e proprio mare, la cui superficie era posta ad una quota di circa 650 m superiore a quella del Mediterraneo. Quel mare raccoglieva le acque di un vasto bacino pluviale, che andava dall’attuale massiccio degli Aurès, a nord, a sud sino ai massicci del Tassili e dell’Ahaggar (la “montagna Atlante”, secondo il testo di Erodoto), dal quale scendeva il fiume che oggi ha il nome di Wed Igharghar. Le sue acque, a loro volta, alimentavano un emissario che scendeva verso est, al Mediterraneo: un fiume perenne, che irrigava le terre della vasta pianura. Quando l’acqua toccava il massimo livello quel mare poteva raggiungere una profondità di circa 350-380 m ed aveva una forma quasi circolare, con una superficie di oltre 280.000 km2, paragonabile per estensione a quella dell’intera penisola italiana. Nel fondo del suo bacino oggi c’è un grande sedimento di sabbia, il Grand Erg orientale (Igharghar): uno dei deserti sabbiosi più estesi al mondo. Si può suppone che a quel grande mare fosse attribuito in epoca antica il nome primitivo di “oceano (pelagos) Atlantico”. Per comodità, visto che il mito antico pose in quella regione il Giardino delle Esperidi e che ancora oggi il suo fondo disseccato si chiama “Chott el Djerid” (palude disseccata del giardino, del palmeto), lo chiameremo “il mare dei Giardini”.
A sud-ovest del mare dei Giardini, a una distanza di altri 500 km, si ergeva verso il cielo il grande massiccio roccioso dell’Atlante... si tratta della montagna oggi nota col nome berbero di Ahaggar, “nobile”. Ricorriamo alla descrizione offertane da Erodoto:
“È stretto e circolare da ogni parte ed alto - a quanto si dice - tanto che le sue vette non si possono scorgere: giammai infatti le ab-bandonano le nubi, né d’estate né d’inverno. Gli indigeni dicono che sia una colonna della volta celeste”.
Le cime più alte di quel massiccio, nella montagna oggi chiamata Atakor, erano quasi 2800 m più in alto del livello delle acque dell’oceano (ossia 3400 al di sopra del livello del Mediterraneo di allora). Alle pendici di quella montagna racconta Erodoto viveva un tempo il popolo degli Atlanti:
“Da questo monte gli abitanti del paese hanno tratto il nome, si chiamano infatti Atlanti. Si dice che essi non si nutrano di alcun essere animato e che non abbiano sogni.
Due percorsi principali, tradizionalmente, conducono dalle sponde del Mediterraneo verso le montagne dell’Ahaggar, e corrono l’uno lungo la sponda ovest dell’antico Mare dei Giardini (è la strada che conduce alle oasi di El Goléa e di Ghardaia, “alti luoghi” del turismo sahariano, i cui wed quando portano acqua puntano ancora in direzione del grande mare disseccato), l’altro lungo la sua sponda orientale, ed è la grande “strada dei carri”, cosparsa di dipinti e graffiti rupestri, descritta nelle sue tappe e oasi dal racconto di Erodoto, percorsa a suo tempo anche dalle truppe romane che penetrarono l’Africa sino al bacino del Niger. La sponda nord era rocciosa, dello stesso tipo di rocce che si frantumarono nel disastro che provocò la fine di Atlantide: sono le gole e i canyon che solcano il versante sud delle montagne degli Aurès e che, in prossimità di Bou Saada, vanno a sfociare sulle prime sabbie dell’antico grande mare. Il fondo disseccato di quel grande mare è occupato ancora oggi da un impenetrabile deserto di sabbia. Ad ovest, all’interno del primitivo bacino, corre ancora da sud a nord una falda d’acqua abbastanza ricca da fornire vita e nutrimento alle oasi del Souf: in questa regione è sorta El Wed e ad una quota più in alta, verso l’antica sponda occidentale, si trovano Wargla e i pozzi petroliferi di Hassi Messaoud.
In quella regione viveva un popolo libico o “pre-libico”, prospero per agricoltura e commerci, dotato di una propria struttura di stati “confederati” in una sorta di impero. Quegli uomini erano grandi costruttori e grandi navigatori e usavano una scrittura, presumibilmente simile a quella libicoberbera; nei geroglifici egizi erano chiamato Tjehenu e nei testi greci Atlantói. Diversi popoli erano loro confederati o vassalli (e ne ritroveremo taluni nell’elenco dei popoli del mare che sciamarono verso l’Egitto, dopo la catastrofe finale).
Se vogliamo provare a riunire gli indizi offerti dai vari autori dell’epoca classica, quel popolo poteva essere giunto alle coste del Mediterraneo dalla grande montagna dell’interno, detta Atlante, al di là del mare “sospeso”, con una migrazione di oltre 2000 km. Almeno sin dal 3000 a.C. gli Atlanti erano capaci di costruire con grandi blocchi di pietra città fortificate e vivevano in costante confronto con l’impero dei Faraoni, in quel lungo confronto che taluni studiosi hanno chiamato “la guerra del bronzo”. Fra i pro-dotti di vitale importanza per la diffusione della tecnologia, essi detenevano il monopolio di importanti giacimenti di ossidiana, un materiale litico (vetro vulcanico) molto pregiato per la produzione di lame e di altri oggetti d’uso. Fra le principali fonti dell’ossidiana nel Mediterraneo, si collocano infatti Pantelleria l’alto picco vulcanico, posto proprio al fondo del loro grande golfo) e le isole Eolie, che dovettero far parte dei territori sotto loro controllo.
Le miniere di rame nativo (oréi-chalkos) si trovavano sulle colline alle spalle della pianura atlantide, ma una grande innovazione tecnologica fu costituita dall’uso del bronzo, lega tra rame e stagno, con migliori caratteristiche di durezza e di resistenza. L’obiettivo strategico per ottenere il monopolio del bronzo era il controllo delle miniere di stagno, di cui l’Africa è priva. I Faraoni sostennero per questo la lunga guerra contro gli Hittiti e conquistarono il controllo delle miniere dell’Anatolia. Gli Atlanti dovettero rivolgersi altroveò il loro stagno proveniva dal sud-ovest della penisola iberica, e forse dalla Cornovaglia. In effetti, la rete dei loro rapporti commerciali potrebbe essere stata connessa con la diffusione delle “culture megalitiche” in Europa e nel Mediterraneo occidentale. Secondo il racconto sviluppato da Platone nei suoi Dialoghi, la società atlantide era strutturata in un sistema statale (una confederazione di piccole monarchie, a quanto pare di poter interpretare il racconto del filosofo), che praticava l’agricoltura, costruiva città, fondeva i metalli (oro, rame e stagno) e aveva scoperto il modo di legarli per ottenere il bronzo, conosceva la scrittura, aveva praticato un espansionismo di conquiste estese sino alla Tirrenia (attuali Lazio e Toscana), combatteva da 2000 anni contro i signori dell’Egitto ed era entrata in conflitto con popolazioni pelasgiche che vivevano sulle coste della pianura egea... i suoi combattenti sono stati raffigurati in bassorilievi egizi e nei dipinti rupestri delle piste sahariane, usavano carri da guerra e da caccia trainati da cavalli, e Platone si sofferma a lungo su una serie di usanze di quel popolo sulle quali, oggi, non possiamo esprimere molti dubbi...
Secondo Platone, i sacerdoti di Sais avevaro
raccontato a Solone che grandi siccità, mai viste prima, avevano calcinato la terra intera, immensi incendi avevano imperversato sulle contrade e distrutto le foreste, fulmini erano caduti dal cielo, terremoti avevano scosso il pianeta, provocando grandi e considerevoli distruzioni, disseccando sorgenti e fiumi. Alle siccità sarebbero sopravvenute le inondazioni ed enormi trombe d’acqua si sarebbero riversate sulla terra, inghiottendo - tra l’altro l’isola degli Atlanti. Quei cataclismi sembravano segnare una fase di transizione, il passaggio da un periodo con un clima più caldo ad un’altra fase, con condizioni di vita più dure.
Corrispondono tali descrizioni a mutamenti climatici che potrebbero essere realmente avvenuti nel sec. XIII a.C.?
Secondole iscrizioni egizie di Medinet Habu, l’Esodo biblico), le catastrofi descritte avvennero veramente. Fu proprio verso il sec. XIII a.C. che la Libia (Nordafrica) conobbe il culmine di una grande fase di desertificazione. Un’iscrizione di Karnak precisa: “I Libici vengono in Egitto per cercare di sopravvivere”. Anche il mito di Fetonte può ricordare una serie di drammatiche siccità che colpì il Mediterraneo, “all’origine della storia dei Greci”.
Tutto quel mondo che abbiamo descritto finì nello spazio di ventiquattr’ore, in un giorno di un anno compreso tra il 1235 e il 1220 a.C.. Una serie di violenti terremoti incrinò seriamente la consistenza degli sbarramenti rocciosi (fatti di tufo e quindi abbastanza friabili, forse già indeboliti da infiltrazioni d’acqua) e aprì alcune brecce, che ben presto cedettero di fronte alla pressione delle acque dei due grandi bacini posti alle quote superiori: il mare sahariano e il Mediterraneo occidentale, costantemente rifornito dalle acque dell’Oceano. Le acque si fecero strada con impeto in canaloni larghi decine di chilometri, con ondate di piena veramente immani, neppure lontanamente paragonabili a quella del Vajont, che è drammaticamente rimasta nella memoria degli italiani. Pur calcolando per difetto il volume del mare sahariano, abbiamo detto che esso in antico conteneva almeno 50.000 chilometri cubi d’acqua, sino ad una quota massima di 650 m sul livello del Mediterraneo orientale. Per determinare l’energia potenziale di quella ondata, potremmo schematicamente identificare il baricentro della massa d’acqua versata a + 350 m. Ne sarebbe derivato l’impatto di un’energia equivalente almeno a 17,5 x 1015 kgm = 17 x 1016 Joule. Supponiamo pure che il livello dell’acqua nell’invaso originale potesse essere già sceso di molto, all’epoca della catastrofe, a causa dei sopravvenuti cambiamenti climatici, ma certo un’ingente l’onda d’urto si poté rove-sciare sulla pianura sottostante. Per distruggere e spazzar via completamente Atlantide, sarebbe bastata un’ondata costituita da meno di un decimo del volume del mare superiore, riversata dal dislivello allora esistente con il bassopiano. L’enorme cascata andò a colpire con un impatto diretto l’isola con la capitale di Atlantide, che si trovava ad una distanza di circa 600 km dallo sbarramento.
Ancora oggi, a chi guardi con attenzione su una carta geografica o su una foto satellitare la regione del Grand Erg orientale, del Golfo di Gabès e della Piccola Sirte, l’antica catastrofe traspare “tra le righe”: il Golfo di Gabès appare come un vero e proprio “imbuto” e non è difficile immaginarsi l’enorme massa d’acqua che vi si scaricò, per riversarsi, con grandi quantità con fango e sabbia, nei bassifondi antistanti, che un tempo dovevano costituire una fertile pianura. Dobbiamo ancora spiegarci, però, perché mai quella zona sia poi rimasta, nei secoli, annegata sotto le acque.
La stessa serie di terremoti ruppe altri diaframmi rocciosi: innanzitutto quello che delimitava a nord la grande pianura in declivio e che costeggiava un mare a un livello più basso, ma di gran lunga più pericoloso: perché quel mare era ormai collegato agli Oceani, e da loro riceveva un afflusso d’acqua costante. Quando anche quelle acque cominciarono a riversarsi sulla pianura di Atlantide, la storia di quella civiltà fu definitivamente sommersa sotto centinaia di metri di acqua salata. I due Mediterranei si fusero in un solo mare. Fu definitivamente sommersa la pianura dell’Egeo, costellata di rilievi montuosi, che rimasero trasformati in arcipelaghi. Per alcuni secoli, gli Achei e gli altri antenati delle culture mediterranee videro l’acqua che saliva, copriva i loro porti, le città costiere e portava via i loro migliori terreni coltivabili... Alcuni di loro tentarono di conquistare l’unico rifugio possibile, la grande pianura che s’innalzava lungo il corso del grande fiume Nilo, al riparo dalla salita del mare... ma furono respinti o assorbiti dalla grande civiltà che già, lungo quelle sponde, aveva costruito un impero, destinato a durare nei secoli e a lasciare di sé un’impronta immortale...
Tutto ciò rimase impresso nei miti di origine della stirpe greca, col diluvio di Deucalione e Pirra, con le grandi epopee di Eracle e degli Argonauti.
Il quadro del cataclisma appare completo se immaginiamo che la stessa serie di scosse telluriche provocasse il cedimento del diaframma (istmo roccioso) che collegava l’Italia alla Sicilia, con la conseguente apertura dello stretto di Messina.
L’impeto della corrente scavò un solco profondo, un letto tortuoso al centro del canale di Sicilia, intaccando e disgregando le rocce di minore resistenza, e andò a biforcarsi, con violenza, contro le rocce più consistenti dell’imponente picco vulcanico di Pantelleria. Il risultato dei cataclismi di quel periodo dovette essere un flusso di corrente verso est, dalla portata molto maggiore di quella che, attraverso Gibilterra, alimentava il livello del Mediterraneo; un flusso che durò a lungo, il cui effetto fu probabilmente rafforzato da quello proveniente dallo stretto di Messina. Si può calcolare che l’innalzamento delle acque nel Mediterraneo sino al livello attuale abbia comunque impiegato alcuni secoli. Le acque fluivano come una veloce corrente tra le sabbie e i fanghi che si erano riversati nel golfo della Piccola Sirte dal grande mare sahariano, e salivano di livello sino ai Dardanelli, alla costa siriana, al Delta del Nilo, coprivano tutti i porti dell’antica cultura minoica, trasformavano Ilio in una città marinara, e spingevano sino a lì i conquistatori Achei, ben decisi a impadronirsi dei poteri e delle ricchezze che il nuovo mare rendeva loro accessibili. Altri di loro partirono verso le rovine sommerse dell’antica Atlantide e incontrarono altre vicissitudini (gli Argonauti nella regione delle Esperidi...). Finirono sommersi tutti gli stabilimenti portuali allora esistenti nell’area del Mediterraneo orientale. Finì sott’acqua ciò che rimaneva della civiltà di Thera, già fortemente colpita dalla gigantesca esplosione vulcanica di due secoli prima; finirono sotto’acqua i templi maltesi, scavati nella grande roccia sacra che era stata, sino ad allora, la “sentinella” di Atlantide. La roccaforte maltese ci appare come una delle due primitive “colonne d’Eracle”, e forse la sua collocazione in questo contesto può aiutare a gettare nuova luce sulla ricchezza di insediamenti sacri, di costruzioni ipogee e di ritrovamenti sottomarini che l’attuale isola e i suoi fondali offrono ancora oggi.
I fanghi, le correnti e i bassi fondali della Piccola Sirte e del Canale di Sicilia resero a lungo difficile la navigazione, come è riferito da Platone e da altri autori classici (incluse le narrazioni del mito degli Argonauti). Se è credibile quanto abbiamo esposto, Atlantide non si è mai mossa, non è sprofondata in nessun abisso oceanico. È stata sconvolta da immani ondate, le sue rovine sono state ricoperte da decine di metri di fango e sabbia e poi da alcune centinaia di metri d’acqua.
La distruzione del centro economicoculturale di Atlantide può apparire collegata alla “misteriosa” interruzione delle attività di costruzione di complessi megalitici, che intorno a quell’epoca si verificò in tutta l’area del Mediterraneo occidentale: nella penisola iberica, così come in Sardegna e in Corsica e potremmo aggiungere sino alle isole britanniche. Era scomparso un importante polo di ricchezza e di riferimento, un paese di grandi navigatori, che commerciavano con i paesi più occidentali per importare lo stagno, essenziale a fondere il bronzo, e in cambio esportavano ossidiana ed altri prodotti mediterranei. I popoli ad esso collegati, per i quali era venuto a mancare il principale partner economico, si trovarono così di colpo proiettati in una condizione di “barbarie”, o quanto meno nella nuova esigenza di basarsi su un regime di sussistenza alimentare. Lo svuotamento completo del grande mare africano, avviato dall’improvvisa catastrofe, fu il colpo di grazia per la desertificazione del Nord Africa. Il fenomeno proseguì con l’inaridirsi del clima e col disseccarsi dei corsi d’acqua che alimentavano il bacino dell’Igharghar, e durò più d’un millennio: il livello scese per l’accresciuta evaporazione e gli uomini dell’antichità classica conobbero un grande lago Tritonide, con un fiume Tritone, che scendeva dalle pendici dell’Ahaggar nel letto dell’attuale Wed Igharghar, la cui lunghezza complessiva raggiunse i 2000 km, secondo i calcoli effettuati da Butavand.
Assumono così un tragico colore le vicende di quella terra di Atlantide che, secondo il racconto platonico, era stata “assegnata a Poseidone”: letteralmente, in quanto era posta al di sotto del livello del mare (nel significato che oggi assume una tale espressione). Si potrebbe tentare di individuare i diversi livelli costieri sommersi, corrispondenti alla progressione delle acque dal momento della catastrofe di Atlantide sino al completo riempimento del mare Mediterraneo alla quota attuale. Ma, naturalmente, questo oggi appare solo come un sogno utopistico. Un’importante conferma, relativa agli antichi livelli marini, potrebbe provenire dalla ricerca in profondità degli antichi porti minoici, che potrebbero essere identificabili nei fondali intorno all’isola di Creta in modo certo meno complesso e macchinoso di una ricerca che puntasse direttamente al ritrovamento di resti nell’area dell’antica Atlantide. Se ora proveremo a rileggere i Dialoghi di Platone e a confrontarli con la “nostra” mappa di Atlantide, avremo la netta sensazione che le cose corrispondano e vadano al loro posto. Le acque del mare salivano gradualmente e allagavano le fertili pianure dell’Egeo, lasciandone emergere solo le cime dei rilievi, che si trasformavano in isole, sempre più piccole... ci renderemo conto che i “novemila anni” di Platone devono davvero corrispondere a un periodo lungo, sì, ma “a misura” della stirpe degli Achei e dei Greci, dopo che essi si insediarono nel bacino del Mediterraneo.
Accadute dunque molte e grandi inondazioni per novemila anni (tanti ne sono corsi da quel tempo sino ad ora), la terra, che in quei tempi e avvenimenti scendeva dalle alture, non si ammassò come altrove in monticelli degni di menzione, ma sempre scorrendo scomparve nel profondo del mare: pertanto, come avviene nelle piccole isole, sono rimaste in confronto di quelle d’allora queste ossa quasi di corpo infermo, essendo colata via la terra grassa e molle e rimasto solo il corpo magro della terra. Ma allora ch’era intatta, aveva come monti alte colline, e le pianure ora dette di Felleo erano piene di terra grassa, e sui monti v’era molta selva, di cui ancora restano segni manifesti. Dei monti ve ne sono ora che porgono nutrimento soltanto alle api, ma non è moltissimo tempo che vi furono tagliati alberi per coprire i più grandi edifici, e questi tetti ancora sussistono. V’erano anche molte alte piante coltivate e vasti pascoli per il bestiame. Ogni anno si raccoglieva l’acqua del cielo, e non si disperdeva, come ora, quella che dalla secca terra fluisce nel mare, ma la terra, ricevutane molta, la conservava nel suo seno, e la riportava nelle cavità argillose, e dalle alture la diffondeva nelle valli, formando in ogni luogo ampi gorghi di fonti e di fiumi, dei quali le antiche sorgenti sono rimaste ancora come sacri indizi, che attestano la verità delle mie parole.
La fine del centro di Atlantide, che basava la propria potenza sull’egemonia commerciale e culturale nel bacino del Mediterraneo occidentale e del Nord-ovest Africano (diremmo oggi, con un termine arabo, Maghreb), dovette causare diverse gravi conseguenze, di cui è rimasta traccia nei “misteri” di quelle aree:
Per lungo tempo crollò il commercio dello stagno dalla penisola iberica e dalla Cornovaglia, sino a che non fu rimesso in auge dai commercianti fenici e cartaginesi. L’Egitto, infatti, era soddisfatto del monopolio sul bronzo ottenuto grazie alle guerre contro gli Hittiti, e la fine di Atlantide costituì per i Faraoni un insperato ausilio all’abolizione di una pericolosa concorrenza sulla produzione della preziosa lega (benché l’arrivo nell’area del Mediterraneo degli Achei, dotati di armi di ferro, avesse considerevolmente ridotto l’importanza strategica del bronzo);
Scomparvero “misteriosamente” i costruttori di megaliti, in tutto l’arco del Mediterraneo occidentale. Una volta diminuite le risorse economiche, la popolazione locale era ricaduta in un regime di povertà e di sussistenza alimentare, che non permetteva certo la concezione e la realizzazione di grandi opere;
Le successive occupazioni delle grandi isole (Sardegna e Corsica) da parte dei popoli del mare fecero sprofondare sempre più nel mistero le origini di quel “popolo dei megaliti” che li aveva preceduti;
Un piccolo gruppo di sopravvissuti del popolo Tjehenu conservò forse il ricordo di una parte degli antichi miti. La mitica regina Tin Hinan, sepolta nel massiccio dell’Ahaggar, nel cuore del Sahara, ne può costituire una traccia, almeno nella permanenza del nome, così come l’alfabeto tifinagh, usato nelle più antiche lingue libicoberbere.
Certamente, però, l’entità e le modalità della catastrofe sopra descritta furono tali da sterminare l’intero gruppo dirigente, che doveva abitare nella città capitale e nella vasta e fertile pianura, devastate dall’onda di tracimazione del “mare dei Giardini”.
Un’obiezione che mi è capitata di ricevere più volte, nel corso dello svolgimento di questa indagine, è stata: “ ma se tutta la storia era così evidente, perché nessuno l’ha mai scritta prima?” La risposta è molto semplice:
“È proprio perché qualcuno l’ha scritta, che possiamo raccontare questa storia. L’ha scritta Platone, e con grande precisione; ne hanno scritte delle parti importanti Eudosso di Cnido, Diodoro Siculo ed altri autori antichi, ne hanno scritte e raffigurate altre parti i cronisti dell’Antico Egitto, con una precisione che sarebbe invidiabile da parte di molti cronisti moderni... si trattava di raccogliere una serie di “pezzi sparsi”, metterli insieme e partire sulle tracce di un disastro i cui superstiti non sono rimasti per raccontarlo... un “Vajont” dei tempi antichi, avvenuto in uno spazio e in un tempo incredibilmente vicini a noi, molto più di quanto ogni nostra fantasia non ci consentisse di immaginare.
Dobbiamo essere grati all’attenzione di Platone che ha tramandato con una tale ricchezza di particolari il resoconto di Solone su Atlantide: una memoria che sarebbe potuta scomparire, sepolta nell’oblio, come tanti altri eventi dimenticati, nel corso della storia dell’uomo.
di Alberto Arecchi
autore del libro “Atlantide, un mondo scomparso, un’ipotesi per ritrovarlo
ed. Liutprand, Pavia, 2001”




Santorini, l’isola delle meraviglie e del mistero
di Antonio Mattera

Nel mare Egeo, a circa 80 km dall’isola di Creta, in direzione nord, vi è una piccola isola, facente parte dell’arcipelago delle Cicladi, dalla forma di mezzaluna, e nelle sue vicinanze altri due isolotti, Therasia e Aspronisi,a dividerli solo una laguna.
Il nome dell’isola è Thira, conosciuta anche come Santorini, ma, nell’antichità era conosciuta anche con il nome di Kalliste (“la Bellissima”).
Un tempo, millenni fa, quest’isola fu la sede di una cultura altamente progredita per i canoni storici standard dell’epoca, oseremmo dire “all’avanguardia”.
Se potessimo tornare indietro nel tempo, forse , raffrontandola a quello che ne rimane oggi, faticheremmo a riconoscerla.
Questo perché ,millenni fa (per la precisione quasi 3600 anni fa), l’isola non aveva questa forma né queste dimensioni.
Era un’isola di forma circolare, al cui centro si ergeva una montagna, e, prendendo per vere alcune prove costituite da scene pittoriche ritrovate in loco, essa doveva avere fiumi e vallate verdi di papiri e palme.
Oggi giorno, per chi sbarca su quest’isola , è visibile un cartello con la scritta, in inglese, che la celebra come l’”isola più bella del mondo” e, seppur ammaliati dalla sua selvaggia bellezza, non può non sembrare una forzatura, visto che il paesaggio è quello tipicamente vulcanico, brullo e spoglio. Non si vedono né olivi ne cipressi e pochissimi sono in generale gli alberi e i cespugli, mentre viti e pomodori crescono nei pochi campi coltivabili sottratti alla pomice lavica, disposti a terrazza, con muri di contenimento che a volta raggiungono i 6 metri, rendendo persino difficile il camminamento delle persone.
L’attività più redditizia è, ancora oggi,e a parte il turismo, l’estrazione, dalle cave, di quella che comunemente viene definita col termine di “pozzolana”, composta da silice e calcio e usata per la preparazione del cemento.
Sicuramente non era così 3600 anni fa, visto che persino i faraoni egiziani la celebravano come un posto paradisiaco.
Quello che oggi ne rimane è uno scheletro, sconquassato da una delle più tremende esplosioni vulcaniche che si siano mai registrate sulla terra, ed è, da allora, rimasta priva del suo nucleo centrale, sprofondato per centinaia di metri nel mare, formando quella che, geologicamente parlando, viene definita una caldera.
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Dove una volta vi era il nucleo centrale dell’isola sorgono oggi due isolotti neri che emersero successivamente chiamati con i nomi Nea Kameni (“terra bruciata di recente”, la più grande, sorta, in vari fasi, tra il 1707 e il 1711, una prima volta e poi ingranditasi durante le eruzioni vulcaniche del 1866 e del 1926) e Palia Kameni (la più piccola, sorta durante un’eruzione del 196 a.C.).
Tutta l’isola non è altro che un vulcano, ancora attivo, che a più riprese, nei tempi passati, è stato motivo di paura e distruzione per chi abitava sull’isola.
Niente comunque in confronto a quello che dovette accadere 3600 anni fa, allorché il nucleo centrale esplose con un immane boato, proiettando al parte centrale dell’isola in aria e sprofondando il resto sotto l’immane massa d’acqua che si dovette riversare nel bacino creatosi. Dove una volta vi era terra oggi vi sono rupi denudate che testimoniano l’improvviso sprofondamento, come se la parte centrale dell’isola fosse stata colpita da un immane maglio gigantesco.
Archeologicamente parlando l’isola è interessante perché, sin dal 1967, anno in cui iniziò una vera e propria campagna di scavi, venne portata di nuovo alla luce, strappata da strati di polvere vulcanica e pietra pomice, a volta spessi anche trenta metri, depositatesi nei secoli, una vera e propria città dell’epoca minoica, con tanto di vasellame, affreschi, utensili, oggetti di arredamento perfettamente conservati.
E’ singolare constatare che la stessa eruzione che provocò la distruzione di gran parte dell’isola e l’annientamento dell’allora civiltà fiorente che ivi prosperò, ha, di fatto, permesso, coprendola con le sue polveri eruttive, con i suoi detriti lavici, che la storia di questo posto potesse giungere a noi, migliaia di anni dopo, con i sue edifici, i suoi manufatti, i suoi affreschi, proteggendola, nel suo abbraccio soffocante, da intemperie, saccheggiatori e quant’altro.
La conservazione dei reperti, la straordinaria quantità e qualità degli stessi, l ‘estensione stessa del nucleo abitativo e i palazzi riportati alla luce ben presto hanno fatto meritare ad Thera (il nome dato a questa città sepolta), ingiustamente, l’appellativo di Pompei dell’Egeo.
Perché ingiustamente suonerebbe questo appellativo? Proprio per i requisiti citati sopra (conservazione, quantità e qualità) e per altri aspetti che approfondiremo dopo, forse sarebbe più giusto appellare Pompei come “Thera italiana” e non viceversa.
L’uomo che ridiede vita a questa città, che la riportò alla luce dopo secoli di oblio, fu l’archeologo greco Spyridon Marinatos, che le dedicò tutta la sua vita, tanto da morire in loco, per strapparla all’abbraccio delle prove della tremenda sciagura avvenuta millenni fa.
Forse, sin dall’inizio, a Marinatos dovette sembrare chiaro che , per l’enorme mole di lavoro da compiere (edifici da disseppellire e preservare, artefatti da ripulire, assemblare, catalogare e tanto altro) non sarebbe di certo stato lui a svelare completamente questo sito straordinario.
Ma, altrettanto certamente, dovette subito essersi reso conto di essere dinanzi ad una scoperta straordinaria, ad un impresa affascinante che avrebbe ascritto il suo nome alla stregua, e forse più, degli Howard Carter, dei Bingham , dei Schielmann, ma che al contempo gli avrebbe creato non pochi problemi dal punto di vista “diplomatico” nei confronti dei suoi colleghi.
Così e successo, e Santorini, con la morte del suo padre putativo, è come se fosse morta di nuovo, come se quasi 40 anni di scavi non fossero serviti a niente, rimanendo esclusa, volontariamente per mano di altri, dai normali itinerari archeologici e dai canoni didattici, relegata molto più semplicemente alla semplice dicitura che la etichetta come “sede di scavi archeologici relativi al periodo tardo minoico”.
Ma è veramente così?
E perché citiamo Santorini in un sito che fa del mistero archeologico e dei fatti misconosciuti il pane principale?
Perché oggi forse Santorini non sarà più l’”isola più bella del mondo”, ma è, sicuramente , la sede di alcuni dei più affascinanti enigmi della storia.
Enigmi che si celano dietro l’effettiva appartenenza della civiltà che fiorì su quest’isola ad un qualsiasi canone storico predeterminato; enigmi che, per alcuni autori, accademici e non, vedono quest’isola come la sede della mitica Atlantide narrata da Platone; enigmi che vedono quest’isola e lo scopritore della sua antica città legati in un abbraccio mortale, un intreccio di politica, vendetta, delitto(?), che sembra richiamare i più classici gialli.
In questa trattazione lasceremo da parte quello che riguarda il connubio Santorini-Atlantide, rimandandovi, per gli appassionati del settore, a libri che riportano questa tesi (Charles Pellegrino “la scoperta di Atlantide”, J.V. Luce “la fine di Atlantide”), perché occorrerebbe a nostra volta scrivere un libro per disquisire su questa teoria.
Tralasceremo di discutere su Spyridon Marinatos e del suo mistero nel mistero, rimandandovi, per ulteriori approfondimenti, all’opera di un editorialista dell’Espresso, Mario La Ferla , “l’Uomo di Atlantide”, un’accurata indagine socio-politica di quegli anni importanti che videro la rinascita di Akrothiri e la morte, misteriosa, dello stesso Marinatos.
Ci limiteremo solamente a mettere in luce particolari elementi che contraddistinguono Akrothiri e la civiltà che vi dovette prosperare e che la rendono , di fatto, uno dei luoghi più enigmatici del nostro pianeta.
Questo per far sì che questo luogo non cadi nell’oblio in cui versano tanti altri posti e non entri a far parte della nostra “ignoranza collettiva” come tanti altri posti di cui conosciamo l’esistenza ma di cui, spesso non sappiamo il “perché” e il “come”, se non addirittura il “quando”.
Questo perché questo posto indica che le definizioni di “primitivo”, “preistorico”, la stessa definizione di “civiltà” spesso sono termini usati in modo improprio e talvolta persino offensivo.
Questo perché spesso non sono i telefonini o il computer o i satelliti nello spazio ad indicare il grado di civilizzazione, ma le idee che aleggiano in diverse epoche storiche e in diversi gruppi di persone.
Questo perché, come ama ripetere nel suo libro un noto scrittore, se un’esplosione vulcanica non avesse distrutto Santorini e la civiltà che ivi era stanziata, probabilmente l’uomo sarebbe arrivato un secolo prima sulla Luna.
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Per capire meglio di cosa si parla , vi invitiamo a guardare prima alcune immagini degli scavi di Thera, scavi che si presume dureranno almeno altri 100 anni, e che ci metteranno a disposizione chissà quante altre sorprese.
Quanti di voi, senza la necessaria prefazione, non avrebbero confuso queste immagini con quelle della molto più celebrata Pompei?
Eppure Akrothiri avrebbe ben più ragione ad essere citata nei libri scolastici o nelle riviste del settore.
Nel gennaio 1866, pochi mesi dopo l’inizio del progetto per la costruzione del canale di Suez (Santorini forniva un ottimo deposito di pomice necessaria per la cementificazione) il vulcano dell’isola diede nuovi segni di vita.
Alcuni vulcanologi e archeologi francesi e greci accorsero sull’isola per studiare il fenomeno e la loro attenzione si rivolse ad alcuni blocchi di pietra, costituenti delle mura, che gli operai della cava di pomice avevano portato alla luce.Un vulcanologo, Fouquè, entrò in possesso, tramite un contadino, di alcuni reperti antichi e dopo alcune opere di scavo scoprì delle cripte, strumenti di ossidiana, uno scheletro e frammenti di vasi.
Stimolati da queste scoperte due studiosi francesi, Henrì Mamet ed Henrì Grocex cominciarono altri scavi nel 1870, scoprendo, coperti da pomice, pareti ricoperte di gesso, dipinte con affreschi dai colori vivaci e realistici, con effetti ottici straordinari.
Né Fouquè né i suoi successori riuscirono a dare una giusta collocazione temporale o un’ identificazione a questo misterioso popolo, anche perché la scoperta della civiltà minoica da parte di Evans era ancora di là a venire 30 anni dopo.
Ma comunque era già cambiato lo schema storico di quella parte del mondo: gli abitanti di quelle isole non erano più dei semplici barbari rispetto agli allora, dottrinalmente parlando,ben più quotati Greci, anzi.
Chi diede impulso alla ricerca su Thera fu l’archeologo greco Spyridon Marinatos che , in più riprese, partendo dal 1930, ne studiò la storia, fino a quando, nel 1956, diventando direttore del dipartimento delle antichità, non decise di dedicarsi anima e corpo a trovare le tracce di un antico insediamento sull’isola.
E, nel 1967, quando prese corpo la prima vera campagna organizzata di scavi, la fortuna non gli venne meno, mostrando giorno dopo giorno una civiltà che aveva veramente dell’incredibile, paragonandola ai canoni storici standard non solo della sua epoca ma anche rispetto a epoche successive.
Marinatos ebbe il grande merito di capire che gli scavi da lui effettuati andavano protetti, al contrario di quanto era successo a Pompei, dagli elementi naturali e da quelli a due zampe.
Coprì così gli scavi con lamiera ondulata sottile e fibra di vetro per consentire comunque il passaggio dei raggi solari. A sostegno di questa copertura, impiantò un sistema di travi in acciaio autoportanti, sistema che gli consentiva facilità nell’installazione e nell’estensione dell’area da proteggere.
In questo clima e con quest’ingegnosità Marinatos si accinse a svelare al mondo il “suo” piccolo, grande, tesoro, anche se si rese subito conto che tra lui e la fine degli scavi sarebbero intercorsi generazioni di archeologi e forse persino qualche secolo. Ma valeva veramente la pena, e per stabilire questo bastarono poche picconate.
Ciò che si celava sotto la cenere e la pomice di Santorini erano i resti di una civiltà ben strutturata e ingegnosamente abile. I suoi membri vivevano in una sorta di paradiso idilliaco, e questo li aiutò a sprigionare grandi verve di energia creativa, talento artistico e gusto sofisticato.
Durante l’età del bronzo, gli abitanti dell’isola godettero di uno standard di vita e di benessere invidiato ancora oggi da molte comunità moderne, o comunque raggiunto solo nel corso degli ultimi tre secoli.
In quest’isola inondata dal sole, gli abitanti di Thera si costruirono case alte ed eleganti, con stanze ben proporzionate, e adornate con esempi fantastici della creatività pitturale dell’epoca.
La loro piccola patria era un punto cruciale per i traffici marittimi dell’Egeo, e, per generazioni, godettero di una prosperità senza eguali, dovuta ai numerosi scambi commerciali che intrattenevano con i mercanti che ivi sbarcavano e con le terre che le loro navi raggiungevano.
Man mano che i lavori procedevano ci si accorgeva di essere dinanzi a qualcosa di straordinario. Non ci volle molto per affermare che la città era stata una località di spicco.Chiunque avesse avuto la fortuna di sbarcare a Thera in quell’epoca felice, sarebbe rimasto impressionato dalla fila di imponenti edifici che si ergevano sulla costa.
Grandi case con solide fondamenta e architravi in legno si erigevano su due, tre o forse anche quattro piani, utilizzate de singole famiglie o da assembramenti popolari. Per la sua densità abitativa e per il numero di edifici, Thera avrebbe ben figurato a cospetto dei maggiori porti di mare europei del periodo medioevale.
Le case si districavano su un labirinto di vie e vialetti, ognuna di loro munita di solide porte e scale, con ampie finestre che davano luce ed aria a stanze di grandi dimensioni. L’arredamento, in legno, era di squisita fattura, come si è potuto concludere dai calchi in gesso rilevati dalle forme impresse nella coltre di cenere vulcanica, unica traccia dopo che il legno era oramai deteriorato da tempo.
Nelle case erano presenti affreschi che rappresentavano episodi di vita marinara, lunghi viaggi, donne della lunghe vesti drappeggiate, dal seno nudo e da sfavillanti gioielli. Gli affreschi che rappresentavano scene di vita naturale erano caratterizzati da una costante presenza di animali oggigiorno non più esistenti sull’isola, come antilopi, scimmie, rondini o da piante come papiri e gigli. Quando venne trovata la prima casa così riccamente decorata si pensò subito che essa appartenesse a qualche nobile, ma poi ci si accorse, ben presto, che questo rappresentava non un optional ma un qualcosa di serie nelle abitazioni di Thera.
Ma il popolo di quest’isola aveva anche il buon gusto per le cose belle e la pulizia.Le case erano, infatti, dotate di bagni con vasche in terra cotta e toilette in pietra che un tempo dovevano avere l’asse in legno.
Le toilette venivano ritrovate sempre al secondo piano degli edifici, ed erano collegate, mediante tubi in argilla incassati tra le spesse pareti, ad una sofisticata rete fognaria comunale che correva sotto le strade!
Sembra che quindi i minoici abbiano anticipato quest’invenzione di almeno una trentina di secoli!!
Per dare un ‘idea di cosa significasse pensate solo che la Venezia dei Dogi, la Parigi dell’inizio XVIII secolo, e persino al Reggia di Versailles all’inizio erano del tutto sprovviste di queste comodità.
Comodità che invece ritroviamo in siti antichissimi e altrettanto misteriosi come Mohenjo-Daro, in Pakistan e che colpirono di stupore i primi conquistadores che si ritrovarono dinanzi alle bellezze di Tenochtitlan, tanto che alcune testimonianze la descrissero più lussuosa di qualsiasi città europea di allora, persino di Roma o Costantinopoli.
Ma torniamo a Santorini.
Vi doveva essere, all’epoca una sorgente d’acqua che a quanto pare riempiva le cisterne della città e scorreva continuamente grazie ad un ingegnoso impianto di fognatura.
In quella che viene comunemente definita come Casa Occidentale, probabilmente , veniva utilizzata la pressione del vapore di qualche sorgente vulcanica affinché si potesse utilizzare una sorta di autoclave che spingeva l’acqua nelle cisterne sui tetti delle case.
L’intrico di tubi presente nelle case fa pensare che il vapore, mentre veniva convogliato in apposite cisterne di condensazione, dove si sarebbe trasformato in acqua per il bagno, nel suo percorso attraversava i muri, riscaldando così d’inverno le stanze delle case.
In effetti sembra che qualcosa simile a valvole sia stato trovato anche se spesso, per prudenza o per voglia di nascondere, si preferisce dare un altro significato a determinati oggetti.
E’ solo un caso che Platone, descrivendo Atlantide, affermi che essa si forniva d’acqua da due sorgenti, una calda e una fredda?
La pesca, insieme alle forme di agricoltura e allevamento, forniva gli approvvigionamenti alimentari di cui la popolazione abbisognava. Inoltre ogni casa aveva una macina per ridurre in farina l’orzo per fare il pane.
Tutte le ceramiche erano un concentrato di colori e grazia, sia che fossero bacinelle o coppe, brocche o piatti, o semplici vasi.
Lo stile delle ceramiche di Thera sembra precorrere quello presente sulle opere di Creta, rinforzando l’ipotesi che gli abitanti di quest’isola abbiano poi esportato il loro stile anche al di fuori del loro territorio.
Il resto di cui questa civiltà aveva bisogno era sicuramente fornito da un importante commercio con altre parti del mondo allora conosciuto, e quindi l’abilità marinaresca di questo popolo era considerevolmente superiore a molti altri popoli dell’epoca. D’altronde molti affreschi mostrano scene di viaggi per mare.
Tutto questo ci fa ben capire che Thera fu molto di più che un semplice sobborgo culturale di Creta, anzi.
Al contrario della nostrana Pompei, a Thera non sono stati ritrovati scheletri di corpi umani o di animali, o oggetti veramente preziosi.Questo fa supporre che la maggior parte della popolazione riuscì a fuggire a tempo.Forse precedenti scosse telluriche, l’apertura di fratture nella terra, da cui incominciarono a scaturire esalazioni di gas e fuochi che incominciarono a levarsi dal cono del vulcano, impaurirono oltremodo la popolazione dell’isola che decise di trovare riparo in altri luoghi.
Qualcuno cercò di riparare le case precedentemente danneggiate dalle prime scosse telluriche, ma poi abbandonò l’impresa, conscio della sciagura che stava per abbattersi sull’isola.Questo lo possiamo dedurre dai tentativi di ricostruzione presenti in alcune parti.
Ma quello che stupisce di più è che gli abitanti dell’isola lasciarono le loro case con la ferma speranza di ritornarci, un giorno. Vasi pieni cibi posti ordinatamente, ceramiche riposte nei ripiani con solerzia,i mobili sistemati e in ordine e, dall’altra parte, la completa mancanza di oggetti di valore, fa pensare ad un esodo tranquillo e disciplinato, benché rapido ed efficiente, piuttosto che ad una fuga travolti dal panico.
Ma la tragedia era dietro all’angolo. La violenta eruzione spaccò in due l’isola e forte ondate di maremoto indotto (tsunami) percorsero tutto l’Egeo abbattendosi con violenza su Creta e sulle altre sponde di quel bacino di mare. La gente venne stordita dai fragori, scossa dai terremoti, soffocata dai gas venefici, mentre una cappa nera come la notte, formata dalle nuvole di ceneri, calava su quel mondo idilliaco.
La civiltà minoica, privata della sua arma migliore, la flotta navale, distrutta dalle onde di maremoto, e terrorizzata da quell’immane catastrofe rimase ben presto vittima delle invasioni di altri popoli, tra i quali i greci, che ben presto distrussero una civiltà che aveva raggiunto un apice eguagliabile (se non superiore) a quello raggiunto dalla società egizia.
Thera era allora una delle meraviglie del mondo, uno dei posti più incantevoli, ma in un niente era diventata “un orrore affascinante nella sua odiosità”, come la descrisse nel 1885 il nobile James Thomas Bent, in un suo soggiorno, osservando le sue spiagge nere e l’atmosfera di desolazione.
Thera potrebbe rivivere, o quanto meno restituirci parte della sua bellezza se l’intero sito fosse riportato alla luce, ma forse la realtà è che, oggi, ben poche persone ne hanno sentito parlare, così che dove la pomice non è più presente a nascondere quest’antico teatro di civiltà, vi è ora la cappa dell’indifferenza e della disinformazione storica e culturale.

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