Atlantide, il continente perduto

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jasmine23
view post Posted on 12/7/2007, 10:30 by: jasmine23




ATLANTIDE PERDUTA E RITROVATA
di Giuseppe Badalucco
per Edicolaweb


Il mito di Atlantide echeggia nella mente degli Uomini da oltre 2300 anni e si rinnova continuamente, spingendo gli studiosi, gli appassionati, i ricercatori a porsi mille domande sulla reale esistenza di questo continente che una catastrofe improvvisa fece affondare negli abissi del grande Oceano al di là delle colonne d’Ercole.
Il racconto è contenuto nei dialoghi Timeo e Crizia, scritti dal filosofo greco Platone ed è da qui che dobbiamo partire per poter capire l’origine del mito.
Platone nacque ad Atene nel 427 a.C.; la sua vita fu segnata da alterne vicende che lo videro protagonista nel periodo in cui la civiltà greca, raggiunto il suo massimo splendore, iniziava una lenta decadenza che ne avrebbe decretato la fine.
Secondo testimonianze dell’epoca Platone forse partecipò da giovanissimo ad alcune campagne militari (Tanagra, Corinto e Delio) e all’età di vent’anni divenne discepolo di Socrate dopo aver frequentato per qualche tempo Cratilo.
Erano anni difficili per la vita politica della polis greca e in quel periodo si verificano tragici eventi bellici che portano alla supremazia di Sparta. Proprio nel 404 a.C. si conclude la guerra del Peloponneso e ad Atene prendono il potere le oligarchie locali con la nascita del governo dei "Trenta tiranni", tra cui è possibile annoverare il vecchio Crizia, zio di Platone. L’anno successivo vi fu la rivolta dei democratici che portò alla caduta del governo dei tiranni e Crizia cade assassinato nella battaglia di Munichia.
In questo periodo Platone comprende che è meglio tenersi lontano dalla vita politica, scelta che si conferma dopo la condanna a morte del suo maestro Socrate (399 a.C.), voluta dai democratici.
Nei dieci anni successivi Platone si reca in Italia meridionale dove viene spinto dal desiderio di conoscere i circoli pitagorici (dove conosce Filolao) ma oltre a questo compie altri viaggi di cui si sa poco, probabilmente in Africa; a Cirene conosce il matematico Teodoro e si presuppone che viaggiò anche in Egitto dove avrebbe conosciuto i sacerdoti egizi.
Nel 387 a.C. Platone ritornò ad Atene e qui vi fondò l’Accademia che richiamò molti giovani e studiosi dell’epoca. Negli anni successivi tornò in Sicilia dove aveva conosciuto Dione e con il quale sperava di poter realizzare i suoi ideali di re-filosofo, ma le alterne vicende della città siracusana con la caduta di Dionigi I e l’ascesa del figlio portò al naufragio dei piani di Platone, che si concludono tragicamente con la caduta di Dione ucciso in una congiura. Dopo queste alterne vicende Platone si ritirò ad Atene dove morì nel 347 a.C.
È importante ricordare che le opere di Platone sono composte dall’Apologia di Socrate, da 34 dialoghi e da 13 lettere che furono ordinati dallo studioso greco Trasillo nel I sec. d.C. in 9 tetralogie.
Tra i dialoghi da lui composti, nella lunga e tormentata vita, ci restano anche il Timeo ed il Crizia in cui narra di un dialogo tra commensali dove si discute di quale siano i principi politici e filosofici che devono ispirare una grande nazione e di quali debbano essere le virtù che devono esprimere i suoi uomini più illustri.
In questo contesto viene narrato il racconto che un sacerdote egizio fece a Solone e che questi avrebbe poi trasmesso ad altri, quando Solone era ancora giovane. Nel racconto si narra che vi fu un tempo, circa novemila anni prima, in cui i padri della patria greca avevano nobilmente combattuto e vinto una grande potenza che aveva invaso il mediterraneo e che aveva la sua terra natia al di là delle colonne d’Ercole.
La narrazione del mito di Atlantide è uno dei misteri più belli e affascinanti dell’antichità, un enigma di grande portata che Platone ci ha lasciato in eredità. Tutto nel suo racconto suona enigmatico; l’origine del racconto, la fine di Atlantide, la descrizione dell’isola e delle sue peculiarità geomorfologiche, la descrizione delle architetture realizzate dai suoi abitanti, il senso di potenza e di ricchezza che emana dal racconto stesso. Sono state scritte migliaia di pagine su questo mito immortale, ma ancora una volta la nostra mente, tra fantasia e sogno, tra elementi reali e immaginari, viene catturata e costretta a porsi di fronte al mistero che lo stesso rappresenta.

LA LOCALIZZAZIONE DELL’ISOLA
L’isola di Atlantide è localizzata genericamente oltre le colonne d’Ercole, situate all’altezza dell’attuale stretto di Gibilterra. Per cui Atlantide viene situata nell’Oceano Atlantico.
Poiché il racconto vuole che l’isola sprofondasse negli abissi oceanici, si riteneva nell’antichità che il braccio di mare al largo delle coste del Portogallo e dell’Africa fosse impraticabile a causa del basso fondale che si era venuto a creare con la sommersione della terra atlantidea. L’impossibilità di ritrovare la terra sommersa nel fondo dell’Oceano diede l’avvio ad una ridda di ipotesi su quella che avrebbe potuto essere la vera localizzazione dell’isola.
Così alcuni studiosi nel corso degli anni, con prove più o meno convincenti hanno asserito che Atlantide fosse localizzabile nel mar Mediterraneao, che avrebbe subito dei cataclismi durante la fine dell’ultima era glaciale. Altri invece hanno trovato Atlantide nell’Oceano Indiano e altri ancora nell’Oceano Pacifico.
Per quanto riguarda l’ipotesi mediterranea occorre dire che la scoperta di una lastra di pietra di origine fenicia, nel corso degli anni 70, in cui si accennava alla terra di Tarsis (Tartessos in Spagna) riferita alla Sardegna, ha fatto supporre che le colonne d’Ercole non fossero all’altezza dello Stretto di Gibilterra ma bensì all’altezza del Canale di Sicilia, tra la punta meridionale dell’isola e la Tunisia.
Questa ipotesi permetterebbe di prendere in considerazione come terra di Atlantide la Sardegna o comunque una parte della piattaforma continentale che sarebbe stata sommersa dall’innalzamento del livello degli oceani avvenuto in occasione dell’ultimo scioglimento dei ghiacci, tra i dodicimila e diecimila anni fa.
Studiosi che hanno approfondito tale ipotesi hanno puntato l’attenzione sulle costruzioni megalitiche e misteriose dei Nuraghi sardi e sulla presenza di reperti archeologici risalenti ad almeno settemila anni fa, ritrovati nell’isola di Malta e che farebbero pensare alla presenza di una civiltà sconosciuta che aveva profonde conoscenze tecniche che gli permettevano di costruire templi con architetture sacre molto particolari.
Bisogna ammettere che qualunque tentativo di localizzare geograficamente il luogo esatto in cui si ergeva l’isola di Atlantide è destinato a fallire miseramente in quanto nessun passo particolare del racconto platonico permette di individuare perfettamente l’isola.
Ciò che Platone fornisce sono degli spunti che permettono allo studioso di riflettere sugli elementi stessi del racconto; per esempio dalla lettura del Timeo e Crizia si evince che l’isola doveva trovarsi ad una latitudine caratterizzata da un clima temperato caldo o subtropicale perché era possibile trovarvi gli elefanti ed era ricca di vegetazione rigogliosa oltre che di pascoli che fa comunque pensare ad un clima non freddo.

L’ATLANTIDE MINOICA
Tra le varie ipotesi in campo senz’altro degna di nota è quella secondo cui la perduta civiltà di Atlantide presenterebbe tratti culturali simili a quelli della civiltà minoica che dominò la l’area greca agli albori della sua storia, tra il 1500 e il 1400 a.C. circa. Questa infatti oltre ad averci lasciato importanti reperti della propria epoca, viene ricordata per essere una civiltà che subì gli effetti devastanti e improvvisi di cataclismi che si abbatterono nel bacino del mediterraneo intorno al XV sec. a.C.
Studi condotti in passato hanno dimostrato che eruzioni vulcaniche e attività sismica interessarono l’area dell’Egeo in quel periodo e potrebbero aver determinato il crollo o il ridimensionamento di tale civiltà. Mentre per quanto riguarda elementi riguardanti la tradizione e la cultura di questa civiltà è interessante notare l’analogia tra la pratica della tauromachia (di cui sono pervenute a noi splendide rappresentazioni pittoriche su vasi) nella civiltà minoica e i riti praticati con i tori di cui Platone attribuisce la pratica nella civiltà Atlantidea. Potrebbe trattarsi di un elemento fantasioso introdotto dal filosofo greco oppure di un riferimento reale a notizie di cui era in possesso.
Ciò che lascia perplesso è la datazione del racconto atlantideo, novemila anni prima dei protagonisti del racconto, che non combacia con la datazione della civiltà minoica che si ferma a novecento anni prima di Platone, mentre alcuni studiosi si sono sforzati di dimostrare che gli Egizi contavano gli anni come mesi, per cui novemila anni sarebbero in realtà novemila mesi, cioè 750 anni (quindi le due datazioni verrebbero riavvicinate), cosa che, a quanto pare non sarebbe vera.

ATLANTIDE O ANTARTIDE?
Le ipotesi si sprecano ma fra tutte le ipotesi possibili una che senz’altro ha colpito per la sua originalità e validità delle tesi sostenute è quella per cui la perduta civiltà di Atlantide possa nascondersi sotto la coltre di ghiacci dell’Antartide. Il polo sud, questa terra misteriosa e ancora tutta da scoprire, potrebbe davvero nascondere le vestigia di questa antica civiltà?
Una serie di considerazioni hanno portato a pensare che ciò sia possibile. Le dimensioni del continente, la sua geomorfologia e altri fattori hanno inciso su questa ipotesi; in particolare gli studi condotti sul clima hanno permesso di mettere in luce che in passato l’Antartide era sgombro dai ghiacci, poiché vi cresceva una vegetazione da clima temperato caldo e ciò fa supporre che possa essere stata la principale culla di una grandiosa civiltà che potesse rappresentare un "ponte" tra l’Europa, l’America e l’Asia.
Questa ipotesi fu elaborata dall’Ammiraglio italiano Flavio Barbiero che compì studi sui diversi scenari relativi al racconto di Platone, raccolti in un suo libro pubblicato nel 1974. Parte delle sue ipotesi, estremamente innovative, furono poi riprese dagli studiosi contemporanei.

LA DESCRIZIONE DI ATLANTIDE
Uno dei tanti particolari del racconto di Platone che desta meraviglia è la descrizione della geomorfologia di Atlantide, a cui si aggiunge quella della vegetazione e del clima dell’isola. Così come lascia senza fiato il senso di potenza e di opulenza che deriva dal resoconto delle costruzioni e delle architetture atlantidee.
Si parla di un’immensa pianura che si estende intorno alla metropoli che sta al centro dell’isola; vengono descritte montagne enormi che scendono a picco sul mare e che racchiudono la pianura centrale. Vengono poi descritti i canali di collegamento dal mare al centro dell’isola resi navigabili con opere ingegneristiche di alto livello fondate su scavi che permettono la navigazione interna, a cui si aggiungevano i sontuosi templi e palazzi che si trovavano nel centro della città, circondata da un canale circolare di dimensioni considerevoli. Questo resoconto è importante perché ci dice che la civiltà di Atlantide era in grado di costruire opere megalitiche.
In questo mistero sta la grandezza di Platone; l’aver descritto, come se l’avesse avuta davanti ai propri occhi, la perduta isola di Atlantide, cosa non facile da realizzare. Se Platone era a conoscenza della versione greca del racconto, ricevuta in eredità dai suoi maestri, tuttavia conosceva dei particolari notevoli che probabilmente provenivano dalle fonti originarie del mito, che si ritiene siano egizie.
Fondamentalmente si può dire che le varie ipotesi messe in campo nel corso dei secoli, che poggiano sull’idea di un collegamento o di un nesso tra Atlantide e la civiltà egizia, al di là della loro validità o meno, derivano proprio da una logica fondata sull’origine storica del mito atlantideo, che è nell’alveo della cultura sacerdotale egiziana.
Al filosofo greco il grande merito di aver preso questa fonte e averla perpetuata nel tempo.

LE EVIDENZE ARCHEOLOGICHE
Nel corso del tempo gli studiosi non si sono più accontentati di leggere il resoconto leggendario di Platone ma si sono sforzati di rendere reale il mito atlantideo cercando di portare alla luce i resti di questa antica civiltà.
Innanzitutto occorre dire che la scoperta dell’America diede avvio, anche in campo culturale, ad un dibattito sulla possibilità di ritrovare la civiltà perduta, anche considerando il ruolo delle civiltà dell’America centrale e latina che erano improvvisamente entrate in contatto con l’Europa.
Ciò che turbava gli studiosi europei era il fatto di considerare degli esseri inferiori i popoli indigeni delle Americhe e la scoperta che essi vivevano ed erano a pieno titolo possessori di tesori archeologici che ancora oggi possiamo ammirare in quei lontani luoghi.
Come potevano quei popoli essere gli autori di quei sontuosi templi, palazzi e piramidi che riempivano quelle terre e come avevano fatto a costruire opere megalitiche di quella portata?
A quel tempo non esisteva l’archeologia in senso moderno, ma gli studiosi di storia antica si limitavano a catalogare testi antichi oppure a studiare le caratteristiche dei reperti archeologici, senza effettuare studi sistematici su varie ipotesi in campo.
Inoltre molti studiosi di matrice cattolica, o addirittura esponenti del mondo ecclesiastico fecero scempio di molto materiale che andò distrutto e che avrebbe potuto chiarire molti misteri delle civiltà precolombiane.
Il problema delle origini delle civiltà precolombiane fu semplicemente rimosso con grande imbarazzo ed è stato ripreso solo in epoca moderna, anche da studiosi che hanno messo in luce come le tradizioni di alcuni popoli precolombiani e i loro miti di fondazione facciano riferimento a uomini o dei che provenivano da oriente e che fondarono la loro civiltà dopo che vi era stato un cataclisma che aveva cancellato il mondo antidiluviano (per gli aztechi essi erano gli uomini che provenivano dalla terra di Aztlan).
La storia della ricerca archeologica di Atlantide inizia, per quanto riguarda l’interesse del mondo accademico, alla fine dell’800, quando i lavori per la posa di cavi telegrafici sul fondo dell’oceano atlantico portarono alla luce dei campioni di roccia magmatica che attirarono l’attenzione degli studiosi. Infatti l’allora Direttore dell’Istituto di geologia di Parigi, Paul Tremier, dopo attente analisi dimostrò che si trattava di una roccia che poteva risalire a circa 15.000 anni fa e si era solidificata all’aria aperta.
Possiamo immaginare lo scalpore di tali affermazioni che misero in subbuglio il mondo accademico in quell’epoca; infatti questa poteva essere una prima prova della veridicità, in linea di principio, del racconto platonico, in cui l’affermazione per cui un’isola come quella di Atlantide possa essersi inabissata sul fondo dell’oceano poteva essere reale. Tale ipotesi avrebbe potuto spiegare anche una serie di conseguenze, come una modifica della struttura idrodinamica delle correnti oceaniche che avrebbe permesso di modificare il clima sulla terra e determinare la fine dell’era glaciale con lo scioglimento dei ghiacciai sull’emisfero boreale, oppure alcune abitudini di specie acquatiche, come le anguille che periodicamente migravano verso il mar dei Sargassi dove un tempo avrebbe potuto esserci l’estuario di un fiume.
Il dibattito che si aprì in quell’epoca fu accesissimo e continuò per molto tempo anche se i geologi stroncarono ipotesi come queste in quanto cercarono di dimostrare che un’isola grande come un continente non può inabissarsi nel giro di una notte.
Nel frattempo furono introdotte nuove ipotesi come quella di Immanuel Velikovsky che si spinse ad affermare che la caduta di un enorme asteroide nell’oceano atlantico potrebbe aver spezzato la dorsale atlantica e determinato l’inabissamento dell’isola. Anche questa ipotesi fu stroncata in epoca moderna ma ottenne anche l’appoggio di eminenti accademici, come il Prof. R. Bass che verificò attentamente tale ipotesi e affermò che non poteva essere esclusa a priori.
Il dibattito su Atlantide da allora è sempre acceso, perché il contributo delle scienze moderne ha permesso di introdurre via via nuove ipotesi che sono state valutate dagli studiosi; ma il compito principale spetta all’archeologia che potrà svelare, con un colpo di piccone o una spedizione subacquea, quei misteri che ancora avvolgono il continente perduto.
È proprio l’archeologia subacquea che ha dato uno dei contributi più importanti alla ricerca dei resti della civiltà perduta; protagonisti di questa spettacolare avventura l’archeologo Manson Valentine insieme al suo staff. Nel 1968 Valentine scoprì poco al largo di Bimini, un piccolo gruppo di isolette vicino alle Bahamas, un allineamento di pietre rettangolari che formavano un percorso di oltre 100 metri, che divenne famoso come "Bimini road" o "Bimini wall", cioè strada o muro di Bimin, il tutto situato ad alcuni metri di profondità nelle acque caraibiche.
Questa sensazionale scoperta ha determinato la riapertura di un nuovo dibattito sulla possibile esistenza di resti di una civiltà antidiluviana sommersa da una catastrofe migliaia di anni fa.
La scienza ufficiale si è subito divisa fra coloro che asseriscono che si tratta di formazioni naturali provocate dall’erosione marina e coloro che invece sospettano che si tratti di ciò che resta di manufatti umani molto antichi.
In particolare il sito di Bimini è formato da un primo allineamento retto di pietre rettangolari lungo diverse centinaia di metri, a cui si affianca un secondo gruppo di pietre che curva ad angolo retto verso la costa. È poi presente una terza struttura più piccola di forma regolare ed infine una quarta struttura costituita da pietre rettangolari distanziate sistematicamente in linea retta per 2400 metri che taglia in diagonale l’antica linea costiera.
Gli studiosi, a partire dallo stesso Valentine, hanno formulato diverse ipotesi su queste formazioni situate nell’oceano atlantico. Prima di tutto si è pensato ad una strada lastricata, che formava un percorso di una città antica, ma si è ipotizzato anche che possa trattarsi di una muraglia sommersa, oppure del basamento di un edificio od anche di un antico molo. Ciò che sorprende e che lascia spiazzati gli studiosi accademici è la regolarità di questi blocchi rettangolari che difficilmente possono trovarsi in natura nelle acque oceaniche per effetto dell’azione erosiva dell’acqua marina; tutto fa pensare alla mano dell’Uomo.
È stato fatto notare che è molto insolito trovare in natura delle formazioni di blocchi di pietre che curvano ad angolo retto.
Sempre nella zona circostante fu poi ritrovata una grossa formazione rettangolare che sembra la pianta di un edificio rettangolare, forse un tempio, che fu denominato "tempio di Atlantide".
Le scoperte di Manson Valentine hanno rappresentato un evento storico, in parte sottovalutato dalla scienza ufficiale, arroccata su posizioni di totale scetticismo, in quanto hanno messo in luce le vestigia di quella che potrebbe essere realmente la civiltà perduta di Atlantide. La sua localizzazione al largo delle coste caraibiche, in piene acque oceaniche può dar ragione al racconto di Platone sull’esistenza della civiltà perduta oltre le colonne d’Ercole, anche se non vi sono gli elementi per poter giudicare i dati forniti da Platone nel Timeo e Crizia.
Certo bisogna ammettere che le ricerche di Valentine hanno risvegliato l’interesse dell’archeologia verso la mitica civiltà sommersa, tant’è vero che da circa 30 anni a questa parte l’archeologia ha assunto due tendenze fondamentali nei confronti del mito Atlantideo.
Da un lato vi sono quegli studiosi che hanno puntato l’attenzione sul ruolo delle civiltà precolombiane e sui presunti collegamenti con gli eredi di Atlantide, per cui molte spedizioni sono partite alla volta dell’America Latina nella speranza di ritrovare gli elementi utili per ricostruire la storia di Atlantide. Dall’altro lato è scesa in campo l’archeologia subacquea nel tentativo di ritrovare, in diversi punti del globo, le tracce della civiltà perduta, che ha creato negli studiosi la convinzione che si trattasse di una civiltà planetaria, in grado cioè di lasciare ovunque tracce di sé.
La discesa in campo dell’archeologia subacquea ha dato frutti insperati, poiché si è giunti in epoca recente a risultati sorprendenti.
In particolare nel maggio del 2001 una spedizione internazionale guidata dall’Ingegnere Paulina Zelitzki, ha scoperto al largo delle coste di Cuba, a circa 660 metri di profondità i resti di strutture architettoniche che hanno caratteristiche tipiche dei manufatti umani.
Si tratterebbe di edifici geometrici, di piramidi e palazzi, contornati da strade di collegamento.
Come possibile che possano trovarsi resti di siffatta portata a oltre 600 metri di profondità?
Anche ipotizzando che il livello degli oceani sia cresciuto di un metro ogni secolo, quanto antichi potrebbero essere questi resti archeologici, oltre 60.000 anni?
Allo stesso tempo, recentemente, un altro staff di studiosi ha individuato quello che probabilmente potrebbe essere il grande canale circolare che circondava la città di Atlantide, sempre al largo delle isole caraibiche, a dimostrazione che l’intero complesso archeologico può rappresentare ciò che resta del nucleo centrale di Atlantide.
Notizie di siffatta portata dovrebbero far cadere i giornalisti dalle sedie ma per diversi motivi, compreso il boicottaggio della scienza ufficiale che spesso lavora per una verità di parte, sovente passano inosservate e occorrono molti anni prima che una scoperta venga ufficializzata o entri nell’area di interesse dei mass media.
Tutto questo dimostra comunque come ancora notevoli sorprese possano giungerci dai fondali marini che nascondono ciò che resta di questa antica civiltà.

RECENTI SCOPERTE DI CIVILTÀ SOMMERSE
Importanti scoperte hanno riacceso il dibattito su Atlantide negli ultimi anni. Tra queste senza dubbio quella che ha lasciato interdetti gli studiosi di tutto il mondo è quella della piramide sommersa di Yonagumi, al largo delle coste del Giappone.
Scoperta nel 1987 da un sub, Kihachiro Aratake, per alcuni anni passò inosservata fin quando il Prof. Kimura dell’Università di Okinawa fece ricadere l’attenzione dei colleghi e degli archeologi su quell’importante struttura a gradoni che si trova ad una profondità di circa 27 metri sotto la superficie del mare e che si erge fino a 5 metri sotto il livello del mare.
Questo incredibile monumento è formato da una serie di gradoni che ricordano le ziggurat babilonesi a cui si sovrappone una piattaforma e in cui è possibile individuare diverse scanalature e canali che attraversano la struttura.
In particolare la piattaforma rettangolare che si trova ad una profondità di 12 metri sembra formata da pietre tagliate manualmente con motivi triangolari e romboidali; più sotto si trova un intricato sistema di gradini e terrazze che sembrano condurre a livelli superiori e inferiori. Nella parte orientale della piattaforma si trova un canale largo 75 centimetri che corre per otto metri dentro la struttura. Vi sono poi, al centro, quattro terrazze scavate nella roccia che puntano in direzioni diverse e una di queste termina in un fossato aperto che scende fino al fondale, con un orientamento est-ovest.
La comunità internazionale si è divisa e alcuni studiosi hanno sentenziato che si tratta di una struttura naturale che ha subito nel corso di milioni di anni l’erosione del vento e poi dell’acqua marina. Ma il Prof. Kimura ha messo in gioco la propria reputazione per dimostrare che si tratta di un manufatto umano antichissimo che fa sorgere il sospetto che il Giappone possa essere una delle terre in cui la civiltà perduta abbia albergato.
Essendo Kimura il massimo conoscitore di quest’opera dopo aver studiato le caratteristiche geologiche della struttura e la sua topografia, dopo aver considerato le caratteristiche delle altre strutture che si trovano in zona e dopo aver studiato l’idrodinamica delle correnti marine, dell’azione erosiva dell’acqua, è giunto ad una serie di conclusioni molto importanti che hanno convinto molti colleghi.
Innanzitutto occorre dire che alcuni blocchi tagliati per la sua presunta costruzione sono stati trovati in punti diversi rispetto a quelli che ci sarebbe aspettati, come se fossero stati deliberatamente posati in un certo punto del fondale. Inoltre alcune aree del monumento presentano caratteristiche topografiche contrastanti fra di loro, come ad esempio un punto in cui compare un bordo sollevato, oppure due buchi circolari profondi 90 cm, o ancora un fossato che scende a strettoia.
Se queste aree fossero state oggetto di erosione dell’acqua ci si aspetterebbe che la forza erosiva avesse agito uniformemente sugli stessi punti della struttura, mentre queste forti differenze dimostrano che la struttura ha caratteristiche che ricordano la manipolazione umana e non di forze naturali.
Ancora Kimura ha fatto notare che nella parte più alta della superficie della struttura vi sono dei fossati che presentano una direzione verso sud che hanno caratteristiche a livello di erosione che non potrebbero essere state determinate da alcun processo naturale, quanto piuttosto da un processo di scavo manuale.
Così pure è stato fatto notare che la serie di gradoni che sale dal punto più basso della struttura a 27 metri di profondità fino a circa 6 metri dalla superficie dell’oceano non può essere il risultato di un processo di erosione, essendo essi a intervalli regolari.
Inoltre è stato individuato un muro o recinto che racchiude il lato occidentale della struttura, formato da grossi blocchi di pietra calcarea che non è originaria della zona. Questa viene considerata la prova definitiva che si tratta di una struttura artificiale.
Sono state fatte diverse ipotesi su questa struttura tra cui quella che si tratta solo di un monumento artificiale, mentre l’altra ipotesi è che sia un misto tra una struttura megalitica innestata su una struttura naturale, o comunque scavata nella roccia originaria che formava il blocco rettangolare.
Entrambe le ipotesi sono valide, in quanto dimostrano l’antichità del monumento, ma in particolare la seconda fa pensare al fatto che tale monumento possa avere caratteristiche simili alla Sfinge, nel senso che anche la Sfinge fu scavata da una roccia naturale.
Ciò che è importante sottolineare è la notevole antichità del monumento, forse risalente a oltre 6000 anni fa, e il fatto che esso è ciò che resta, forse insieme ad altri non ancora individuati, delle vestigia di un’antichissima civiltà, diffusa in tutto il pianeta, di cui il tratto comune in nostro possesso è la costruzione di monumenti megalitici (questo è lungo 200 metri).
Ciò che bisogna capire è che nel momento in cui è possibile individuare monumenti megalitici con caratteristiche simili alle piramidi a gradoni o a facce lisce, sparse per il mondo, e alcune sotto la superficie del mare, occorre mettere da parte qualunque remora e prendere la lezione di studiosi come Leo Frobenius e farla nostra.
Non è possibile che tutto questo sia casuale, ma è l’indice di una affinità culturale e tecnica che accomuna queste antiche culture anche se separate dal tempo.
Quello che abbiamo davanti ai nostri occhi è l’espressione di un antico retaggio che si trasmise dalla civiltà perduta, tramite i suoi sopravvissuti, alle civiltà sorte nei millenni a venire.
Questo è il buco nero della storia dell’Umanità, difficile da individuare, ma da cui ogni tanto sbucano fuori alcuni pezzi di questo passato ormai lontano.
Oltre a quanto detto più sopra occorre aggiungere che generalmente siamo abituati a pensare che una scoperta archeologica relativa ad una antica civiltà sconosciuta possa consistere nell’individuare un’antica città o una necropoli o altri reperti e che questi siano integri (come la scoperta di Troia, individuata nella sua interezza).
Un discorso di questo genere non può valere per la civiltà perduta, perché qui stiamo parlando di una civiltà che scomparve nel giro di poco tempo oltre 12.000 anni fa e i cui resti sarebbero stati inghiottiti dalle acque oceaniche, in cui vi sono profondità medie superiori ai 1000 metri.
Proviamo a pensare cosa significhi scandagliare il fondo dell’oceano nella sua infinita grandezza, palmo per palmo, a quelle profondità.
Possiamo immaginare quale fortuna abbia rappresentato la scoperta di Bimini da parte di Valentine in cui quello che è stato individuato potrebbe essere un pezzo di una muraglia; quindi proviamo a immaginare cosa possa esserci sotto a quei resti.
Se si riesce ad individuare anche un solo mattone utilizzato per costruire un tempio o palazzo, sarebbe già una fortuna, perché il disastro descritto dal mito è di proporzioni planetarie, tali da frantumare la struttura di grandi opere architettoniche e scioglierle in mezzo al mare.
Parliamo di diverse ipotesi in campo, come repentino cambiamento delle geometrie orbitali del pianeta che possono aver determinato lo scioglimento delle calotte polari e dei ghiacciai con un aumento della piovosità su scala mondiale e onde oceaniche di centinaia di metri di altezza che sbattono contro le montagne; inversione del campo magnetico della terra con effetti sulla rotazione e sul clima, impatto di una cometa, tutti eventi in grado di polverizzare la vita sulla terra, o comunque portarla sull’orlo dell’estinzione.
Il diluvio descritto da Platone, voluto dagli dei per punire la potenza malefica acquisita da Atlantide, non si discosta molto dalle descrizione fornite dai miti di fondazione più antichi, come quello sumero-accadico o altri ancora, perché è accentuata la dimensione cosmica del disastro e la sua caratterizzazione temporale, che è repentina.
Tuttavia ciò che differisce è la finalità del racconto, di tipo cosmologico e cosmogonico, nel caso dei miti di fondazione, di tipo politico, nel caso di Platone, che vuole illustrare le virtù storiche della madrepatria greca le cui nobili origini erano state dimenticate.
Nonostante tutto questo il racconto si distaccò dal contesto in cui fu scritto e divenne il più antico e nobile mito di tutti i tempi.
Difficile dire se Platone si rese conto di quello che aveva fatto. Egli prese la matrice originaria di questo mito, di derivazione egizia, che avrebbe potuto rimanere nel chiuso della terra dei Faraoni, e la trasmise al mondo e ci parlò di questa mitica civiltà che un tempo estese il suo dominio in tutto il mondo allora conosciuto e che era ricca e potente e fertile come terra. Un Eden i cui abitanti di stirpe divina, tuttavia, si corruppero rispetto alle origini e cercarono di dominare il mondo, ma furono cancellati di colpo in una notte, dopo tremendi terremoti ed eruzioni vulcaniche.
Non abbiamo la possibilità di andare oltre, con il mito Atlantideo di Platone, perché Platone si ferma qui.
A dispetto di quanto detto più sopra occorre ricordare che altri scrittori e filosofi dell’epoca greca si occuparono, anche se in modo meno sistematico, del mito atlantideo; tra questi si possono annoverare il geografo Strabone e Erodoto nelle loro opere "Descrizione della terra" e "Istorie". Essi però avevano identificato Atlantide con l’Africa settentrionale, andando in direzione diversa da quella di Platone.
Ciò che lascia ancora oggi perplessi è la mancanza di un riferimento preciso negli archivi egiziani all’isola di Atlantide, stante il racconto dei sacerdoti egizi trasmesso oralmente ai padri greci. Questa, forse, è la chiave di volta del mistero di Atlantide.
Il ritrovamento di questi presunti archivi dovrebbe mettere fine alla leggenda atlantidea per farla divenire una splendida realtà, e da più parti si è invocato la presenza di questi archivi cartacei nei meandri dei grandi monumenti della piana di Giza.
Fino a quando questi non saranno ritrovati dovremo accontentarci di una serie di leggende anche di origine egizia in cui si parla di presunti contatti della civiltà del Nilo con popoli provenienti da terre lontanissime (la leggenda del drago d’oro del Medio Regno che risale almeno al 2000-1750 a.C.).
Quello che ci preme mettere in luce è la difficoltà che si riscontra nella ricerca archeologica, perché se si fosse trattato di una terra rasa al suolo da un terremoto si sarebbero trovati i resti, ma ciò che viene inghiottito dagli oceani è difficile da ritrovare.
Questa è la tragica conseguenza del mito atlantideo che rende scettici molti studiosi; eppure già molto è stato ritrovato, a cui si aggiunge il contributo dell’archeologia precolombiana che ha dato molti frutti, perché si è iniziato affermando che le civiltà precolombiane avevano avuto inizio intorno al 500 d.C., e poi gli studiosi hanno corretto il tiro andando sempre più indietro nel tempo.

L’EVOLUZIONE STORICA DEL MITO ATLANTIDEO
È importante sottolineare anche l’evoluzione storica che ha subito il mito platonico dell’Atlantide.
Per molti secoli è rimasto immutato e addirittura ha influito sul tentativo di navigare oltre le coste occidentali dell’Europa, poiché si riteneva che quel tratto di oceano fosse impraticabile a causa della fanghiglia provocata dal cataclisma atlantico.
Ovviamente con l’evoluzione del quadro politico e storico che riguardò l’Europa tra il 300 e il 400, si riaccese l’interesse per la navigazione oltre il mediterraneo nella speranza di trovare nuovi sbocchi che permettessero di raggiungere le Indie orientali, essendo le vie di terra comunque bloccate dalla dominazione islamica sul vicino oriente.
Si ritiene che scoperte come quelle di Magellano, di Colombo e degli altri grandi navigatori di quella grandiosa epoca siano un misto tra una sfida intellettuale e tecnologica da un lato e un’esigenza economica dall’altro, considerando che queste sfide erano coperte dalle finanze del Re di turno, con grande dispendio di denaro statale.
È proprio a partire da quest’epoca che il mito Atlantideo cominciò a subire una lenta evoluzione che lentamente lo distaccò dal racconto platonico per portarlo verso una nuova dimensione che è stata data dalla fruttuosa mente umana.
Cominciamo col dire che gli uomini che toccarono il suolo americano e che negli anni successivi scoprirono le civiltà precolombiane ebbero la sensazione di trovarsi di fronte ad indigeni (uomini o animali che fossero) che occupavano le vestigia di civiltà antichissime che avevano preceduto tali popoli primitivi.
Possiamo immaginare il fervore con cui uomini di cultura, ecclesiastici e autori di cronache del tempo possano aver descritto i ritrovamenti dell’epoca a cui fece seguito non solo la totale distruzione di documenti originari e testimonianze che andarono perdute per sempre, ma anche il più o meno repentino genocidio ci milioni di persone innocenti che la storia sembra avere dimenticato.
Una volta preso possesso di queste terre, i vincitori hanno riscritto la storia, hanno contraffatto documenti e vergato sulla carta tradizioni dei popoli locali, modificando deliberatamente i miti di fondazione di molti di questi popoli, per cui è molto difficile stabilire l’esatta origine di molti di questi.
Tuttavia la follia umana non arriva fino al punto di distruggere grandi opere come le piramidi e i templi e palazzi che ci sono rimasti a testimoniare le affinità culturali tra le due sponde dell’oceano atlantico.
Questo ci è bastato per capire che vi era un collegamento anche se è molto difficile da ricostruire.
La sensazione che quindi provarono questi uomini che affacciavano il loro sguardo sulle civiltà dell’America Latina fu quello di trovarsi di fronte alla mitica civiltà di Atlantide, di cui una parte non era affondata nel gorgo oceanico e quindi di essere di fronte ad un pezzo dell’Eden antidiluviano.
Già da questo momento il mito platonico viene intaccato per subire una deviazione rispetto alle sue origini. Ma è nell’epoca moderna che il mito atlantideo subisce l’evoluzione più forte che ne modifica gli aspetti essenziali, riportando l’alveo del mito stesso alla civiltà egiziana, dopo che il baricentro della ricerca archeologica si era spostato verso l’America.
Alla fine dell’800 si assiste in Europa alla nascita di uno dei movimenti culturali più importanti che siano mai sorti nell’ultimo secolo; la società teosofica creata da Helena Blavatskiy che ebbe il compito di unire la cultura esoterica occidentale con quella orientale di matrice prettamente indiana. Questa società segreta ebbe un rapido sviluppo, grazie anche al contributo economico di decine di persone interessate, anche di rango elevato, e contribuì ad elaborare una pesante mole di opere letterarie che divennero dei classici della teosofia moderna.
Nei circoli culturali sparsi in tutta l’Europa e in America si abbeverarono alla "fonte" esoterica di questo scorcio di fine secolo diversi personaggi, tra cui, in Europa anche personaggi che furono protagonisti della scena politica europea dell’inizio del 900.
Tra lo sterminato panorama della letteratura esoterica elaborata da H. Blavatskiy, che aveva avuto a sua volta come maestro George H. Felt, della Confraternita di Luxor (la Società segreta più importante in America), insieme ai suoi collaboratori, vi è un testo "Iside svelata" in cui si parla di Atlantide. In questo testo ci si spinge ad attribuire origini atlantidee alla civiltà della Valle dell’Indo e si conclude che le speculazioni di Platone sulla creazione degli uomini primordiali e la vicenda atlantidea debbano essere interpretate in senso allegorico per poter essere comprese.
In un altro testo "Dottrina segreta" viene ideata l’identificazione degli atlantidei con i giganti biblici e si profetizza la "resurrezione" di Atlantide insieme all’altro continente perduto, quello di Lemuria.
Qui è interessante notare lo sforzo notevole messo in atto dalla teosofia per coniugare la letteratura filosofica precristiana con la letteratura religiosa cristiana, in cui l’accostamento tra il disastro atlantideo di matrice platonica e il diluvio biblico è importante, perché pone sullo stesso piano gli uomini antidiluviani atlantidei, caduti a causa del loro stesso male, e gli uomini che riempivano la terra al tempo di Noè, corrotti e malefici.
Il contributo di Blavatskiy si fermò qui, ma da allora la leggenda di Atlantide andò di pari passo con il diluvio universale, di cui, man mano che passava il tempo, si individuavano sempre nuovi pezzi fino a giungere alla scoperta delle tavolette babilonesi su cui è inciso il poema di Gilgamesh che narra del mitico diluvio e che risale almeno al 2.000 a.C.
Nel XX secolo quindi la leggenda di Atlantide conosce una nuova vita, una sorta di resurrezione che amplia le fonti di riferimento della sua origine, non fondandola solo sullo scritto platonico ma allargando tali fonti alla presunta capacità degli studiosi di esoterismo di interpretare le nuove fonti scoperte, o quelle ancora da scoprire, grazie al contributo della teosofia e degli esoteristi puri.
In questo contesto si muove il medium Edgard Cayce, il quale sfruttando le sue doti naturali che si ampliavano in stato di trance, riscrisse la storia di Atlantide, asserendo egli stesso di essere la reincarnazione di un sacerdote di Atlantide vissuto all’epoca del diluvio.
Secondo questa versione del racconto di Cayce, che non contesta il racconto platonico, Atlantide era una civiltà evoluta che era in grado di governare il mondo antidiluviano.
In particolare conosceva l’uso dell’energia atomica, era in grado di viaggiare su mezzi di trasporto simili a quelli moderni, conosceva le tecnologie moderne relative alle tecniche ingegneristiche e a quelle di costruzione.
Una vera civiltà evoluta in senso moderno che si autodistrusse con diverse guerre in cui fu impiegata anche l’energia atomica per poi inabissarsi intorno al 10.000 a.C.
I sopravvissuti di Atlantide sarebbero emigrati in parte verso l’Egitto e in parte verso l’America latina dando origine alle civiltà megalitiche e delle piramidi, dovendo comunque subire un regresso tecnologico che riportò gli uomini all’età della pietra.
Cayce (deceduto nel 1945) riscrisse quindi in chiave moderna l’epopea di Atlantide e profetizzò che l’isola più importante del continente atlantideo sarebbe risorta dalle acque della zona caraibica intorno al 1968, profezia che secondo alcuni si è avverata con le scoperte di Bimini.
L’evoluzione subita dal mito atlantideo dimostra come esso sia da considerarsi un paradigma relativo agli orizzonti della storia umana che possono essere cicilici, cioè ripetersi ad intervalli di tempo, per cui quanto accaduto nel passato lontano può essere espressione di un destino comune dell’uomo che prima o poi si ripeterà.
Comunque la si pensi bisogna ammettere che questo mito immortale affascina gli uomini da sempre e continuerà a spingere l’uomo a porsi inquietanti interrogativi su quello che possa essere il proprio destino futuro.
Che questo mito sia l’ombra di una verità storica spetta all’archeologia dimostrarlo, perché se è vero che sembra impensabile che novemila anni prima di Platone potesse esistere uno stato greco organizzato è pur vero che ciò che sembra impossibile può sempre avverarsi, come dimostrò Heinrich Schliemann che scoprì i resti di Troia.
A Platone, da grande pensatore quale era, il merito di aver raccolto e trasmesso all’Umanità questa importante eredità del passato perduto e di averla perpetuata come monito per le generazioni future.

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